Padania o Grande Lombardia?

fllgaAnche se sovente veniamo associati alla Lega Nord da diverse categorie di persone (dai fascisti-statalisti ai simpatizzanti della sinistra occidentale), non ci stancheremo mai di rimarcare la nostra estraneità a questo partito. Anche se agli occhi di una persona poco documentata la LN possa sembrare un movimento etnonazionalista, essa in verità non lo è mai stata. Già negli anni 80, pur avendo da subito attirato al suo interno persone di diverse sfumature ideologiche, essa nacque come un movimento libertario i cui discorsi economici ricoprivano un primo piano, lasciando ai margini la questione immigratoria insieme a quella etno-linguistica. Uno a questo punto potrebbe controbattere dicendo che la questione economica alla fine è ciò che interessa di più alla massa e che dunque sarebbe l’unico metodo per attirare un numero consistente di gente. Peccato però che in quei casi in cui si fa leva solo ed esclusivamente sulle questioni fiscali, senza una solida e precisa ideologia che non cambi a seconda di come soffia il vento (ricordiamo i dilemma “Padania libera-Federalismo fiscale-Lega Nazionale) non si andrà mai da nessuna parte perchè finirà che ognuno metterà i propri interessi personali al di sopra di quelli della comunità, giungendo in questo modo ad inconcludenze su tutti i fronti ed a conflitti interni.

In questi tempi bui l’etnonazionalismo comunitarista (le cui priorità non escludono affatto le questioni economiche,ma le contestualizzano in un discorso più ampio)rappresenta l’unica giusta ideologia che possa unire i lombardi di buona volontà per l’autodeterminazione, proprio perchè antepone gli interessi della comunità etnica a quella dei singoli e delle lobby foraggiate dall’attuale sistema globalizzato. Il tempo delle divisioni tra i guelfi e i ghibellini, tra i comunisti e i fascisti è finito da un pezzo; oggi la contrapposizione è tra gli autoctoni e gli allogeni e tra i nazionalisti e i mondialisti.

Saluu Lombardia!

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MMDCCLXX Ab Urbe Condita

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L’anno nuovo si apre nel segno di Giano, dio squisitamente italico-romano preposto agli inizi, il cui duplice volto guarda al passato e al futuro rivelando un terzo volto proiettato sul presente, che saremmo noi. Il nome di Ianus allude alla porta (ianua) posta a guisa di passaggio tra il vecchio e il nuovo ma anche tra l’esterno e l’interno e la sua arcaicità ci comunica quanto la valenza da esso incarnata fosse celebrata dai nostri antichi Padri italici e romani.

Giano si pone al principio delle cose materiali e immateriali e apre il nuovo anno facendo da traghettatore che aiuta ad attraversare il guado dal passato al futuro, come un ponte che serve a metterci in comunicazione con il nuovo senza dimenticare il vecchio perché le nostre radici affondano nella Storia e da essa traggono quella linfa vitale necessaria ad intraprendere il cammino identitario. Senza passato non c’è futuro, ma non si deve dimenticare la dinamica del movimento che proprio Giano ci insegna, per evitare così di fossilizzarci, di impantanarci in una fase di stallo poco proficua senza osare per guardare dinnanzi a noi, al domani che ci attende, si spera, radioso, e che va affrontato con eroico piglio giorno dopo giorno.

Il nostro Capodanno civile (ma anche sacro) segue quello astronomico che abbiamo celebrato il 22 dicembre scorso, nel solstizio d’inverno la cui vera epifania si manifesta nel giorno di Natale (quello vero, ovviamente), festeggiato il 25; in quella data il sole, dopo la sua caduta nelle tenebre, risorge e lentamente riprende quel cammino che lo porterà a guadagnare terreno sulla notte, sull’oscurità, sino a raggiungere il suo massimo trionfo nel solstizio d’estate.

Giano è creatore e procreatore, padre degli dei, nostro e del mattino, inaugura l’anno nuovo denominando il primo mese tanto che nella religione italica arcaica ricopriva una funzione preminente, più importante di Saturno e di Giove stessi essendo egli l’iniziatore di tutte le cose; nel suo nome avevano inizio le cose materiali (naturali ed agresti, ma anche civili, ad esempio) e spirituali (cicli di rinnovamento che si ricongiungono poi all’ultimo giorno dell’anno sotto gli auspici di Saturno) tutelate dal suo sguardo bifronte rivolto sia verso ciò che è stato sia verso ciò che sarà, consegnandoci il presente che noi rappresentiamo ogni giorno della nostra vita terrena.

È proprio alla luce di tutti questi interessantissimi aspetti tramandatici dai culti tradizionali e dalla loro memoria difesa e conservata dai custodi della Tradizione (indirettamente, pure dalla Chiesa cattolica romana che si è appropriata degli antichi simboli riciclandoli in chiave cristiana), che il 29 dicembre scorso, con alcuni sodali, ho partecipato ad un suggestivo rituale, semplice e frugale, oserei dire archetipico, ma proprio per questo frutto della genuina spiritualità di colui che lo ha predisposto. Da questa celebrazione emerge la potenza del simbolo, perché noi abbiamo bisogno di simboli per poterci congiungere sacralmente al ricordo dei nostri Avi e della loro inestimabile cultura religiosa. Capiamoci: qui non si tratta di scimmiottare la liturgia cattolica (che, anzi, è quella che ha scopiazzato malamente i riti gentili degli Indoeuropei mescolandoli alle stramberie abramitiche) o di limitarsi alla pratica esteriore come fosse sterile esercizio narcisistico: la questione è molto più importante e profonda.

Se ci fermassimo al rito, alla liturgia, avremmo capito poco o nulla; noi dobbiamo fare tesoro dei simboli, dei gesti, delle parole per poter – mi si passi il termine – digerire al meglio e assimilare la valenza più intima dei culti tradizionali, che era quella di rinnovarsi mediante l’esercizio spirituale interiore, finalizzato a cambiare in meglio, affinando la nostra sensibilità spirituale e culturale. È fondamentale vivere queste occasioni come dono tradizionale dei Padri che ci invitano, mediante essi, ad entrare in comunione con loro per poi mettere in pratica, quotidianamente, gli insegnamenti eterni di sapienza gentile che oggi più che mai dobbiamo recuperare. Tutto questo non può venire dal cristianesimo, dal giudaismo, dall’islam, da altri culti stranieri o peggio ancora dall’ateismo che strizza l’occhio alla paccottiglia new age e wicca (forme di modernismo consumistico, di deviazione); può solo venire da quella sottile linea rossa di Sangue ariano che ci ricollega alle origini etno-culturali d’Italia e d’Europa ma non per giacere in una fase di stagnazione, bensì per affrontare al meglio le sfide di tutti i giorni che il futuro ci riserva.

Radunati attorno ad un falò inscritto in un cerchio di sassi, nella suggestiva cornice naturale di uno scorcio di Lario reso suggestivo dall’antica presenza in zona di genti gallo-romane devote a Cerere, i convenuti hanno celebrato la rinascita solstiziale del sole ma con lo sguardo di Giano rivolto al Capodanno, essendo agli sgoccioli del MMXVI. Il cerchio ha trovato il giusto equilibrio nella fondamentale presenza dei quattro elementi ossia acqua, fuoco, terra e aria, accompagnati dai doni offerti durante il rito tra cui il ruolo di protagonista tocca ovviamente al vino. Abbiamo bruciato il consueto vecchiume che volevamo lasciarci alle spalle per affrontare con la giusta serenità il domani, liberandoci da quei pesi che gravano sull’anima, anche per cercare così di raggiungere la giusta sinergia con le forze della natura circostanti, scacciando quanto di negativo potesse intromettersi. Il rituale si svolge in pieno spirito comunitario di solidarietà ed unione cameratesca, in armonia con la natura circostante e sotto un cielo invernale grigio che rende però magica l’atmosfera comense lacustre e prealpina, ed affascinante lo scenario che ci fa da sfondo.

Come ho ricordato poco sopra non ci si può fermare al rito e alla pratica esteriore, altrimenti il tutto rimane sterile per quanto sia attraente; si deve metabolizzare quanto il rito ci comunica anche per riuscire a leggere tra le righe e comprendere appieno il significato più intimo di questa frugale celebrazione, una celebrazione oserei dire davvero pagana ossia agreste, rustica, in linea con la semplicità perduta che i nostri Avi mettevano nel culto. E così facendo la vera potenza del simbolo non rimane sulla carta ma viene assunta da noi, illuminati dallo spirito della Tradizione che ci infonde sapienza, conoscenza, capacità introspettiva e anche la volontà di essere esempio per gli altri, a partire dai nostri cari e dalle persone a noi più vicine.

Credo infatti che la valenza più importante e bella di questi genuini momenti di condivisione stia proprio nel farsi comunità, nel ritrovarsi attorno ad un fuoco sacro immersi nella natura e riscoprirsi così parte di un territorio e di una cultura che hanno fortissimamente bisogno di noi e dei modelli positivi che dobbiamo incarnare, per non morire. Essere strumenti di un disegno cosmico latore di grandi ed elevati ideali implica grande forza di volontà e sacrificio, non è sicuramente da tutti e per tutti, ma dobbiamo comunque cercare nel nostro piccolo di brillare per squarciare il velo dell’omologazione ai tenebrosi dettami del conformismo borghese e mondialista e raddrizzare il tiro che la modernità ha preso almeno da settant’anni ad oggi.

Sono grato a chi mi ha permesso di prendere parte ad una cerimonia densa di simboli e di spunti per la riflessione, importanti se utili a migliorare sé stessi e l’ambiente circostante nel nome dell’Identità e della Tradizione che gli Avi ci hanno tramandato. Grazie al sacro consesso si riscopre una parte basilare della spiritualità locale e nazionale e si può anche cogliere come il cristianesimo cattolico abbia pesantemente assorbito (e riutilizzato) i fasti gentili per farsi strada nell’Europa romana; paradossalmente la Chiesa cattolica offre il destro per scavare nella sua liturgia cogliendo così le vere radici di molta parte (se non tutta) del calendario annuale da essa svolto. So che diversi, tra chi sta leggendo, potrebbero dirmi che a suo modo la Chiesa è tradizione iniziatica a fronte di una gentilità antica “interrotta”; personalmente, credo che la Tradizione vada recuperata possibilmente depurandola da ogni patina cristiana, che ne ha pervertito il senso, perché solo così possiamo gustare pienamente di quel calice colmo di delizia primigenia donata a noi dagli antichi progenitori arii.

E solo così possiamo inoltre divenire coerenti araldi del messaggio identitario e patriottico che deve essere corroborato dalla tutela delle vere radici d’Europa, che ovviamente non sono quelle con cui amano trastullarsi preti, rabbini e imam e tutti i vari reazionari di area cristiana, convinti di difendere la più intima essenza del nostro Continente biascicando formulette religiose scritte in libri estranei alla cultura indoeuropea.

Sperando abbiate trascorso una lieta fine d’anno – sebbene quello appena trascorso ci abbia riservato moltissime amarezze in termini di polis – concludo augurandovi un MMXVII (come il Natale scorso caduto, peraltro, di soledì!) all’insegna del rinnovamento comunque conscio del proprio passato, la cui migliore lettura ci viene fornita dall’antica datazione romana Ab Urbe Condita. Sta infatti nell’eterna romanitas la chiave della resurrezione spirituale e materiale, scandita dalla rinascita del sole, frutto di una decisa presa di coscienza identitaria che ci renda finalmente Italiani valenti e orgogliosi della propria inestimabile eredità latina, sotto l’egida di Giano che ci guida alla nuova avventura pronta a dipanarsi lungo il susseguirsi delle stagioni di questo MMDCCLXX AVC.

Saluu Lombardia!

Ave Italia!

Paolo Sizzi

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Europei ed Eurorimbambiti

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Questa settimana è stata segnata da 4 eventi a dir poco clamorosi, cioè la presa di Aleppo da parte di Assad, con la conseguente indignazione dell’Occidente, l’uccisione dell’ambasciatore russo in Turchia e infine l’attentato a Berlino, città, che per motivi che ormai conosciamo bene, non è più così estranea alla realtà turca e mediorientale. Attentatore che pochi giorni dopo fu ucciso in una sparatoria contro la polizia, nella nostra Milano. Del resto è naturale, siamo nella UE, che per principio ha la libertà di movimento di chiunque, no? Ma il fatto che colpisce di più, non sono tanto gli eventi stessi di per sè, ma la reazione dell’Occidente che si rivela a volte strana, a volte semplicemente deplorevole.

Ovviamente, nessuno, nonostante gli attentati di Parigi, di Bruxelles, di Nizza e di Berlino, ha deciso di rinnegare il sacro dogma “multiculturale”, ma anzi si è pure rimarcato di voler continuare la politica di tolleranza, di apertura e di difesa dei valori occidentali. E qui, talvolta subentra anche l’altra faccia della medaglia, ossia coloro che сriticano l’immigrazione afro-asiatica, solo per il fatto che il problema starebbe nell’islam stesso e non nella deleteria filosofia partorita dalla Scuola di Francoforte, adottata dall’Europa come modello, dal dopoguerra in poi. Che senso avrebbe combattere l’islam per difendere dei pseudovalori come i “diritti civili”, la società consumista e altre oscenità, che non sono altro che dei sintomi di una civiltà decadente, in attesa di essere sopraffatta da altri popoli più forti con filosofie di vita più tradizionali? A qualcuno piace associare gli islamisti radicali ai nazionalisti europei, ma guardate che nei fatti i  migliori alleati di questi beduini sono appunto i governi occidentali, che favoriscono i loro esodi in Europa, dichiarando guerra ai regimi laici e autonomi del Nordafrica e del Medio Oriente, i quali talvolta hanno una funzione di blocco dei flussi migratori (ricordiamo Assad, il famigerato Gheddafi, ma anche l’Iraq, dove le armi di distruzione di massa non sono mai state trovate, però in compenso abbiamo l’ISIS).

La colpa dei disastri mediorientali, così come quella dei recenti attentati in Europa, dunque non è dei cosidetti neonazisti populisti, ma degli stessi poteri forti che ormai da decenni fanno di tutto per marginalizzare la cultura tradizionale europea imponendoci la società consumista e multirazziale. E difatti gli arabi, immigrati di seconda-terza generazione che vivono in Europa,  che spesso e volentieri si avvicinano a correnti islamiche radicali, non se la prendono con i governi occidentali, anzi, capita spesso di notare le bandiere della Free Syrian Army nei cortei a favore dei “rifugiati”, ossia degli invasori, che vengono in Europa per vivere di assistenza sociale. La Free Syrian Army  viene spacciata dai media occidentali come opposizione siriana moderata ma in verità di siriano e di moderato ha ben poco, anche perchè è sostenuta non solo dagli USA, ma pure dall’Arabia Saudita, il paese fondamentalista, che però a differenza dell’Iran (denigrato sovente dai media occidentali) è tra i più grandi alleati dell’Occidente. Quindi, questi signori, così come quelli europei che amano baloccarsi con i sensi di colpa nei confronti del Terzo Mondo hanno ben poco da lamentarsi, delle atrocità del malvagio uomo bianco, visto che questi jihadisti “naturalizzati” dimostrano di essere semplicemente delle pedine funzionali ai veri carnefici del Medio Oriente, ossia USA e Arabia Saudita. E qui vorrei ricordare anche che la sinistra occidentale si diceva a favore dello spodestamento di Gheddafi, anche se oggi usa come scusa le guerre provocate in Medio Oriente, per accogliere parassiti di tutto il Terzo Mondo.

Appare inoltre emblematico il fatto che dopo la presa di Aleppo da parte dell’esercito siriano, sostenuto dai russi, a Parigi viene pure spenta la Tour Eiffel, in segno di solidarietà con i terroristi, e dopo pochi giorni viene  ucciso a colpi di pistola l’ambasciatore russo in Turchia, in segno di vendetta, sempre per Aleppo.

Da una parte dunque abbiamo i mondialisti occidentali e islamisti (i quali per quanto possano sembrare all’apparenza diversi, hanno molti più punti in comune di quello che si potrebbe pensare), dall’altra invece i nazionalisti europei, ma anche quei mediorientali che a casa loro combattono con i fatti il demone atlantista-saudita e i suoi tirapiedi. In poche parole noi siamo per l’Europa e non per il concetto distorto di Occidente, imposto a noi ormai da 70 anni.

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La cialtroneria della storiografia ideologizzata

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La nostra storiografia risente ancor oggi, a proposito di Alto Medioevo e di popoli “barbarici”, del giudizio sprezzante e negativo che ne diedero a suo tempo autori come Alessandro Manzoni, personaggi ideologizzati che per questioni di retorica patriottarda ottocentesca erano soliti bollare come aberrazione tutto quello che si discostava dalla romanità, dalla latinità e soprattutto dalla cristianità cattolica dell’Italia. Bersaglio principale furono i poveri Longobardi, massacrati iniquamente dando corda alle testimonianze, decisamente di parte, dei loro nemici, soprattutto papi e Franchi.

Fermo restando che la principale eredità culturale italiana è stata, è e per sempre sarà quella romana, latina, e dunque romanza, va riconosciuto l’eccesso di zelo patriottico di coloro che in epoca risorgimentale, ovviamente per ragioni di retorica e di germanofobia anti-austriaca, si sono avventurati in alcuni campi umanistici giungendo a conclusioni del tutto arbitrarie ed ingiuste sul nostro passato, esibendosi in quello che, a tutt’oggi, è uno sport sciovinistico italiano: il supermercato della storiografia e dell’etnografia. In altre parole del capriccio, caratteristico dei faziosi, in cui a seconda delle proprie inclinazioni si sceglie quale periodo salvare e quale invece cestinare, come fosse stato un gigantesco scherzo della storia da dimenticare e occultare sotto il tappeto del nazionalismo di cartapesta.

I Romani van bene i Celti no, gli Etruschi sì i Longobardi no, l’eredità greca del Sud sì ma quella gallica del Nord no e così via. Attenzione, il fenomeno è esecrabile anche capovolto, e qui entrano in campo le mascherate pontidesi della Lega che vorrebbero ridurre il Settentrione d’Italia ad una sterminata distesa di “barbari” che nulla avrebbe a che fare con Roma e il mondo classico del Mediterraneo. Qui insomma si stigmatizza il settarismo e la partigianeria di chi vuole piegare la nostra storia ai propri capricci propagandistici, ed è proprio per questo che il sottoscritto ha deciso di prendere le distanze sia, naturalmente, dall’italianismo cialtronesco che vede un’Italia tutta uguale e romana da Nord a Sud, sia dal secessionismo pagliaccesco che si immagina un Nord celto-germanico (e basta), un Centro romano (e basta) e un Sud caricaturale tutto Levante o anche peggio. Mi viene, peraltro, da ridere perché spesso vengo accusato dai romanisti di essere nazi-leghista e dai padanisti di essere invece fascio-itaGliano, segno che le posizioni equilibrate e le sfumature (razionali) risultano invise a chi è accecato da ignoranza fanatica e rodomonteria wanna-be, per usare un efficace anglicismo.

C’è però da dire che l’acme della comicità involontaria si raggiunge con gli ultrà da sacrestia che amano masturbarsi pensando ad un’Italia da sempre cristiano-cattolica, così innamorati del proprio vaniloquio confessionalista da non rendersi nemmeno conto di come la vera Tradizione italo-romana nasca dalle radici pagane ed indoeuropee e, sebbene intersecatasi successivamente con la cristianizzazione petrina, poco abbia genuinamente a che fare con tutto il bagaglio di eresie mediorientali scaturite dal giudaismo. Intendiamoci, è sciocco ignorare una connotazione (anche culturale, non solo religiosa) dell’Italia in direzione cristiana e cattolica, con cui dobbiamo confrontarci ogni giorno della nostra vita, ma santi numi, noi siamo quel che siamo innanzitutto per l’eredità greco-romana e per la latinità, nonché per le nostre coloriture etno-regionali, sebbene in superficie vi sia una pennellata abramitica che sta confondendo le idee agli Italiani e agli Europei da un po’ troppo tempo.

Tornando al nostro caso specifico, che è quello relativo ai Longobardi, si deve rimarcare la tendenziosità di chi ha voluto raffigurarli come dei barbari irrecuperabili, “nefandissimi”, bellicosi e sanguinari, bestiali e incivili, oppressori di Roma, dei Romani e della romanità, e questo per ragioni di sporca propaganda politica; il giudizio sprezzante del Manzoni nasce, ovviamente, dalle testimonianze scritte alto-medievali di parte pontificia e franca, ma soprattutto pontificia, dovute a ragioni politiche e ideologiche volte ad affermare il dominio temporale della Chiesa e della sua ingordigia territoriale (il tutto, basato su notissime menzogne smascherate dagli umanisti) sull’Italia centrale e bizantina, una Chiesa rapace e dispotica che non poteva tollerare le mire espansionistiche dei Longobardi tese ad unificare politicamente l’Italia sotto la corona pavese. I papi ci tirano in casa i nostri nemici esterni dai tempi di Pipino, raggiungendo così una satanica collusione tra gli avversari interni e quelli forestieri del nostro Paese. Quelli interni, nella fattispecie, sarebbero appunto i preti di Roma capeggiati dal gran rabbino crociato asserragliato nei palazzi vaticani.

Con Liutprando, Astolfo e Desiderio la riunificazione politica dell’Italia era letteralmente ad un passo, e non fosse stato per il Vaticano saremmo (politicamente) nazione da quasi 1.500 anni (ma da più di 1.500 se si considerassero Odoacre e Teodorico), ed immaginatevi quanto marciume si sarebbe potuto evitare sventando il criminale piano pontificio consistente nella seminagione di zizzania per dilaniare il Paese, frammentandolo in decine e decine di inutili entità amministrative, indipendenti (per modo di dire, indipendenti, visto che ricadevano sotto il dominio degli stranieri). Quelli invece intrigarono con Carlo Magno, il Regno longobardo venne liquidato e l’Italia spezzata in diversi tronconi con un Nord dominato dai Franchi, un Centro asservito ai preti, un Sud longobardo e poi svevo-normanno ma alquanto ellenizzato e sotto la costante minaccia islamica di Mori e Saraceni.

Proprio per queste ragioni il “nazionalista” Manzoni, coi suoi epigoni, non solo è esecrabile ma anche ridicolo, perché demonizzando i Longobardi per glorificare i papi e i carolingi finisce per esaltare i veri nemici dell’unità d’Italia, coloro che per secoli vollero uno spezzatino peninsulare sottomesso, ininfluente, vessato dalle scorribande di qualunque popolo confinante, ridotto ad uno scenario da cartolina buono solo per i triti cliché anti-italiani: sole, mare, cuore, amore, arte, cibo e via di banalità consimili. Nei sogni bagnati dei neoguelfi un desolante panorama siffatto stuzzicava barbarici sogni teocratici, con un’italietta angariata dal romano pontefice e inaridita dalle fole mediorientali di un dio tirannico e straniero, un dio che vuole pecore e non guerrieri padroni del proprio destino.

Oltretutto le ideologie ottocentesche dello stato nazionale (contraddistinte da poco piacevoli venature massoniche) hanno contribuito a tutta la distorsione storiografica sul ruolo svolto dai Longobardi in Italia, non solo politicamente ma anche etnicamente, culturalmente, linguisticamente, da un punto di vista antropico tanto che le esagerazioni partigiane in materia sono giunte sino ad oggi, anche se fortunatamente la moderna storiografia cerca di raddrizzare decisamente il tiro a tutte le leggende nere che circondano i Longobardi. Leggende nere che, del resto, riguardano anche il Medioevo raffigurato dai soliti noti come periodo di buio, barbarie, decadenza, inciviltà, malvagità e irrazionalità da contrapporre all’Illuminismo, ma che invece andrebbe riletto con onestà ed intelligenza scoprendo così la vera essenza di quel periodo e la sua reale configurazione.

Con i Longobardi inizia il Medioevo italiano ma non fu una rottura totale col passato romano, tanto più che la fusione tra elementi germanici e romani risultò fondamentale per la fortificazione e l’ascesa del regno di Pavia, una monarchia latinizzata e immersa nella realtà italica dell’epoca che raggiunse il proprio apogeo quando l’assimilazione dell’elemento allogeno germanico a quello indigeno romanico fu compiuta. La sinergia tra forza politico-militare germanica e quella giuridico-culturale romana fu fondamentale per la gloria dei Longobardi e della loro corona e rivelò il potenziale straordinario da cui ripartire dopo il lento dissolversi delle istituzioni dell’Impero romano d’Occidente.

Paolo Sizzi

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Il Biscione Visconteo

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Uno dei simboli più rappresentativi, se non il più rappresentativo, della Lombardia è certamente il Biscione visconteo, le cui radici affondano nella storia di Milano e della stessa Lombardia.

Il Biscione rappresenta un simbolo ctonio, mitologico, pregno di significati che si potrebbero accostare a quelli del più noto basilisco, una bestia mitica, molto ricorrente nei racconti medievali, cui veniva attribuito il potere di uccidere col solo sguardo o col proprio fiato pestifero.

A questo proposito, ecco spuntare il drago Tarantasio, un mostro che secondo la leggenda infestava le acque del prosciugato lago Gerundo, ubicato in quella che oggi è la Gera d’Adda, al confine tra il Milanese e il Bergamasco; questa figura si ricollega a quella di altre fiere tipiche del mondo celtico (draghi appunto) cui veniva attribuito il mortale potere di uccidere col miasmatico fiato, proprio come il grecizzante basilisco. Appare utile ricordare che il drago, mitico animale acquatico, ben poteva adattarsi ad un clima paludoso, come quello padano degli albori, contraddistinto da primitive civiltà celto-liguri palafitticole.

Si dice che questo drago Tarantasio terrorizzasse la zona uccidendo e divorando fanciulli (ed ecco una prima interpretazione dell’uomo ingollato dal Biscione) e che per questo venne ammazzato dal capostipite dei Visconti che lo immortalò poi nel proprio stemma, in ricordo dell’impresa. Questa è chiaramente una leggenda, che peraltro coincide col prosciugamento del lago lombardo.

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Il Drago Tarantasio

Decisamente più veritiera è invece l’ipotesi che vuole il Biscione vipera adorata dai Longobardi. Essi erano molto superstiziosi e portavano al collo amuleti a forma di vipera, azzurra, inquadrata come proprio animale totemico (forse riprendendo anche il bronzeo serpente issato da Mosè nel deserto per guarire gli Ebrei morsi dai rettili desertici inviati da Dio come castigo).

Pare poi che questo simbolo sia passato al comune di Milano e da lì acquisito dai Visconti che lo fecero il proprio simbolo.

Nell’accezione longobarda la vipera, o bissa alla milanese, avrebbe un significato positivo, ctonio, da cui la vita fiorirebbe invece di essere annientata. E questo è un simbolo di chiara ispirazione matriarcale che vede nella Madre Terra, la Dea Madre, l’origine della vita, vita che da essa nasce e ad essa ritorna.

Un’altra ipotesi, suggestiva più che reale, vuole che il Biscione sia invece un simbolo orientale strappato dal capostipite dei Visconti, Ottone, durante le Crociate, ad un “infedele” ucciso in combattimento, “infedele” finito poi, nello stemma, tra le fauci del serpente a mo’ di contrappasso per simboleggiare la vittoria viscontea sui musulmani.

In effetti in alcune rappresentazioni, e descrizioni araldiche, compare una figura umana descritta come “moro” e non più come fanciullo roseo, e a questo punto potrebbe anche esservi una sovrapposizione dell’impresa milanese nella cosiddetta Terrasanta, citata anche da Giuseppe Verdi nel suo brano “Oh Signore dal tetto natio” dell’opera ” I Lombardi della prima crociata”.

Proprio qui appare interessante la similitudine che c’è tra la leggenda del Drago Tarantasio e la leggenda di San Giorgio. Anche secondo questa leggenda, ambientata però in Libano, il cavaliere San Giorgio riuscì a sconfiggere il terribile drago che infestava le acque di un lago, salvando così dal pericolo gli abitanti locali. Il quadro si fa ancora più suggestivo se pensiamo al fatto che sia il Biscione Visconteo che la Croce di San Giorgio siano dei simboli strettamente legati alle Lombardie, ai Visconti e all’Insubria in primis.

La figura guerriera di San Giorgio, al pari di San Michele, venerato anche esso dai nostri Avi Longobardi (per i quali la sua figura si concilliava bene con quella di Odino), rappresenta uno degli esempi di armonica fusione tra elementi pagani e cristiani e naturalmente la stessa cosa si può dire sul Biscione Visconteo stesso; da una parte simbolo longobardo di origine pagana e dall’altra simbolo dei crociati lombardi che sconfiggono il semita in battaglia.

Rimanendo fedeli all’ipotesi longobarda, l’uomo tra le sue fauci potrebbe essere tranquillamente un simbolo ctonio nascente, sebbene l’ipotesi del Moro fagocitato, a rappresentare la vittoria personale viscontea in Palestina, abbia il suo fascino.

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Affresco del Tarantasio nella chiesa di San Giorgio in Lemine ad Almenno San Salvatore (BG)

Un’ultima interessante ipotesi, teorizzata da alcuni ambienti insubricisti, vede nel Biscione visconteo un richiamo a quegli antichi dragoni gonfi d’aria, e issati in cima ad una picca, che venivano utilizzati come vessillo da alcuni popoli germanici ma anche iranici, soprattutto a ridosso del limes; potrebbe anche darsi che in Pannonia, ove erano siti prima di dilagare nella Pianura Padana, i Longobardi abbiano acquisito questo simbolo portandolo in eredità a Milano, dove poi divenne emblema comunale e visconteo.

Il Biscione è un animale totemico, longobardo, passato poi al comune di Milano e ai Visconti, che ne fecero il proprio stemma (sempre utilizzato però da Milano, dagli Sforza al Lombardo-Veneto, finendo anche per rappresentare ambiti commerciali, pubblicitari e sportivi milanesi).

La bissa milanesa conserva a distanza di secoli il suo diuturno fascino e la vediamo come simbolo ideale a rappresentare la Lombardia etnica (contrapposta al Triveneto, nonchè quella che fu Austria longobarda, il cui simbolo più importante a livello storico è il Leone di San Marco), assieme all’Aquila imperiale di retaggio latino-germanico. Del resto, il vessillo ducale dei Visconti è caratterizzato proprio da questi due simboli inquartati in una bandiera bianco-dorata, e recuperarlo è sicuramente un degno tributo nei confronti di coloro che hanno gettato le basi della moderna Lombardia e che hanno fatto di Milano il suo capoluogo nonché la città precipua del Nord Italia.

Un’insegna migliore, senza dubbio, dell’attuale bandiera verde con rosa camuna bianca, che banalizza un nobilissimo simbolo camuno meglio rappresentato, secondo noi, dallo svastika che  riprende una reale incisione rupestre (Carpene) di chiaro retaggio solare indoeuropeo.

Pol Sizz

Lissander Cavall

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La situazione geolinguistica

Geolinguistica lombarda

Situazione linguistica della Lombardia etnica.

Dopo aver tracciato un semplice quadro introduttivo sulla questione linguistica lombarda, procediamo ora all’approfondimento delineando un’essenziale analisi delle lingue attualmente parlate in Lombardia.

Premettiamo che, dal punto di vista accademico, le ricerche effettuate sulle suddette lingue risentono indubbiamente dei numerosi filtri di natura politica che il sistema italiano sviluppa per cercare di sotterrare l’identità lombarda e delle altre popolazioni cisalpine.

Ma lasciando da parte le ragionevoli critiche che si potrebbero muovere a certi linguisti italiani, entriamo nella più interessante trattazione tecnica delineando una visione d’insieme della situazione geolinguistica della Lombardia.

Naturalmente, la principale famiglia linguistica autoctona parlata in Lombardia è il lombardo, che dopotutto sarebbe il gallo-italico “puro” ovvero il galloromanzo cisalpino; sistema linguistico che appartiene alla più grande famiglia delle lingue romanze, ossia lingue sviluppatesi dal latino volgare che era parlato in molte parti dell’immenso impero romano, declinato sulla base dei sostrati prelatini.

Per la precisione, il lombardo fa parte della sottofamiglia delle lingue romanze occidentali, la quale comprende a sua volta il gruppo iberoromanzo e il gruppo galloromanzo. Quest’ultimo è infine suddiviso in sottogruppo settentrionale, sottogruppo occitano e sottogruppo cisalpino (sottogruppo cui il lombardo appartiene, assieme a retoromanzo e veneto).

Giusto per chiarire le idee a chi è poco ferrato in linguistica, ricordiamo a questo punto che l’italiano standard è una variante del toscano, lingua appartenente alla sottofamiglia romanza orientale, la quale comprende il gruppo italo-romanzo e il gruppo balcano-romanzo.

Tale precisazione è da considerarsi doverosa perché moltissimi Lombardi sono tuttora convinti (ovviamente per via della disinformazione portata avanti dallo stato-apparato italiano) che le proprie lingue siano dialetti dell’italiano.

Ma come sarebbe possibile ciò se i due idiomi in realtà non fanno neppure parte della medesima sottofamiglia?

In verità, è sufficiente possedere un minimo senso critico per intuire che pure la linguistica sia stata strumentalizzata per cercare di legittimare uno stato senza Nazione come la Repubblica Italiana nata 70 anni fa.

Chiusa la parentesi sui rapporti tra il toscano e il lombardo, cerchiamo ora di definire lo sviluppo storico e, successivamente, l’estensione della lingua lombarda (lingua intesa come sistema linguistico gallo-italico, si capisce, non essendoci una precisa koiné pan-lombarda).

Durante i secoli della dominazione romana, le popolazioni celtiche che occupavano il bacino imbrifero padano appresero lentamente il latino volgare che veniva quotidianamente parlato dai commercianti e dai legionari.

In seguito, l’invasione longobarda (in misura minore quella gota) arricchì lo scadente latino che parlavano i nostri avi con nuove forme lessicali, sintattiche, grammaticali e fonetiche che, nel giro di qualche secolo, diedero origine alla primitiva lingua lombarda.

A livello scientifico, si usa perciò dire che il lombardo è una lingua romanza occidentale (cisalpina) con sostrato celtico e superstrato longobardo.

Non ci vuole molto a intuire che la definizione linguistica di lombardo è strettamente collegata alla definizione etnica di Lombardi: popolazioni cisalpine di origine celtica su cui si è innestata una certa componente gota ma soprattutto longobarda.

Queste due definizioni fondamentali ci consentono di delineare precisamente i confini linguistici della Lombardia (etnica): piemontese, insubrico, orobico, emiliano sono infatti gli unici idiomi romanzi con sostrato celtico e superstrato longobardo e, di conseguenza, gli idiomi da considerarsi lombardi.

Possiamo perciò rispondere ad alcune delle ingenue domande che spesso riceviamo: perché la Liguria non è Lombardia? Perché la Romagna non è Lombardia? Perché Bologna e Ferrara non sono Lombardia? Perché la Lunigiana non è Lombardia?

Oltre al fatto che il sostrato celtico è presente solo nella lingua ligure e non nell’etnia ligure, bisogna ricordarsi che la Liguria è stata sì conquistata (tardivamente) dai Longobardi, ma il clima avverso alla popolazione germanica fece in modo che non vi fossero insediamenti dei medesimi in tale territorio.

Per quanto riguarda invece la Romagna, sanno anche i polli che deve il suo stesso nome al non essere stata mai conquistata e colonizzata dai Longobardi.

A differenza della vicina Romagna, il Bolognese e il Ferrarese furono sì conquistati da Liutprando nel 727, ma rimasero sotto il dominio longobardo per talmente poco tempo (nemmeno cinquant’anni) da non consentire l’innesto di un superstrato longobardo. E questo anche se bolognese e ferrarese sono certo più gallo-italici del romagnolo, considerando che il ferrarese è prossimo al mantovano e il bolognese è a metà strada tra lombardo e romagnolo.

La Lunigiana ha invece ricevuto un considerevole apporto longobardo sia a livello etnico che linguistico, ma non ha il sostrato etnico celtico (problema speculare alla Romagna). Per tale ragione la vallata apuana non può essere parte della Lombardia etnica.

Per questi motivi dunque considerare i vernacoli romagnoli e liguri come lombardi non sarebbe esatto, però considerando che essi comunque facciano parte appieno del sottogruppo gallo-italico, non sarebbe un errore grossolano considerarli come delle propaggini del sistema linguistico lombardo, anche perchè teniamo comunque a mente che il ligure risente di parecchio degli influssi piemontesi e occitani (un esempio sono le vocali turbate), mentre il romagnolo presenta diverse affinità con i dialetti emilani centro-orientali, così come il ferrarese presenta somiglianze con il mantovano. In poche parole il termine “lingue lombarde” può benissimo essere inteso per “lingue gallo-italiche.

Chi ha visionato attentamente le nostre cartine avrà certamente intuito che la Lombardia etnica che proponiamo non coincide esattamente con la Lombardia linguistica.

In effetti, durante lo studio effettuato in questi anni, si è ritenuto opportuno inglobare nella Lombardia alcuni territori popolati da minoranze linguistiche che per questioni storiche, geografiche e culturali starebbero meglio con noi Lombardi.

Per la precisione, le minoranze linguistiche che, previa loro approvazione, dovrebbero appartenere a un ipotetico organismo politico lombardo sono le seguenti:

– Le sette vallate provenzali delle Alpi occidentali: sebbene non siano state occupate dai Longobardi e siano linguisticamente provenzali, le valli occitane possono per ragioni storiche e geografiche essere parti della Lombardia.

– Le vallate franco-provenzali delle Alpi occidentali: sebbene non siano state occupate dai Longobardi e siano linguisticamente franco-provenzali, le valli arpitane possono per ragioni storiche e geografiche essere parti della Lombardia.

– La fascia ligure al di sopra dello spartiacque appenninico: nonostante parlino dialetti di transizione tra lombardo e ligure, la fascia ligure può per ragioni storiche, geografiche e culturali essere parte della Lombardia.

– Le comunità walser delle Alpi Lepontine: sebbene siano etnicamente, linguisticamente e culturalmente differenti, le comunità walser della Valsesia e dell’Ossola possono per ragioni geografiche essere parte della Lombardia.

Fermo restando che tutte le quattro minoranze etno-linguistiche elencate godrebbero delle opportune forme di tutela necessarie a una giusta autodeterminazione, dovrebbe risultare ovvio come l’appartenenza all’ipotetico organismo politico lombardo rappresenti anche una questione di “comodità” delle minoranze stesse.

Non ci vuole infatti un enorme sforzo logico per intuire che per un abitante di Lanzo è più comodo e meno dispendioso stare sotto la giurisdizione di Torino che sotto quella di Chambéry.

Discorso che vale anche per le altre tre minoranze linguistiche.

Adalbert Ronchee

Pol Sizz

Lissander Cavall

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La questione linguistica lombarda

Uno dei problemi fondamentali che potrebbe affrontare la Lombardia etnica federale è la questione linguistica.

Considerata l’inesistenza di una koiné1 lombarda, sarà sicuramente palese come, al momento, il problema non solo appaia di difficile soluzione, ma si presti allo sviluppo di proposte risolutive differenti.

Tale evidenza va a nostro parere ricercata nell’elevato grado di differenziazione che con il tempo si è creato all’interno delle numerose loquele lombarde.

Sarebbe infatti sciocco non riconoscere che la soggezione a differenti dominazioni straniere ha inevitabilmente comportato lo sviluppo di un elevato grado di differenziazione dei vari vernacoli parlati in Lombardia.

Ma se da una parte ciò rappresenta un bene poiché si tratta di un vastissimo patrimonio culturale importante per lo studio delle nostre origini e della nostra storia, dall’altra è innegabile che la peculiare situazione linguistica lombarda potrebbe agli occhi di molti “giustificare” quelle che non sono altro che deleterie posizioni campanilistiche.

Per carità, una moderata dose di campanilismo può anche essere desiderabile, ma mettersi a reclamare la creazione di pseudo-Liechtenstein per ripugnanti ambizioni economiche o strani complessi egocentrici supera abbondantemente i limiti del ridicolo.

Ed è anche nell’intenzione di evitare dannose beghe tra conterranei che abbiamo sviluppato quella che, a nostro avviso, è la soluzione migliore alla questione linguistica che dovrebbero adottare i Lombardi (e conseguentemente un futuro organismo politico lombardo).

Entriamo ora nel dettaglio analizzando quella che è una delle principali esigenze di un qualsiasi popolo: un linguaggio per la reciproca comprensione.

Non serve certamente un particolare titolo di studio per intuire che, se ogni Lombardo utilizzasse il vernacolo casalingo per redigere, ad esempio, un semplice passaggio di proprietà, si verrebbe a creare una situazione di caos tale da impedire moltissimi scambi (anche informativi) tra gli stessi Lombardi.

È anche vero che tutti i dialetti lombardi sono degni di tutela e ogni Lombardo ha il diritto di tramandare il proprio idioma alle successive generazioni, preferibilmente anche tramite l’ausilio delle istituzioni.

Come risolvere di conseguenza questo trade-off tra la necessità di una comunicazione agevole e la necessità di una tutela della propria loquela?

Dovrebbe essere palese che il compromesso migliore stia chiaramente nell’elezione di un particolare idioma al rango di koiné (e poi a lingua nazionale2 di un futuro stato etnofederale italiano) sviluppando contemporaneamente efficaci strumenti di tutela delle varianti locali.

Ciò comporta naturalmente un ulteriore problema da risolvere: che loquela andrebbe scelta come koiné lombarda?

La pratica suggerisce tre essenziali modalità di soluzione del rilevante quesito.

1) Elezione di un dialetto a koiné: un particolare dialetto viene scelto per motivazioni di diversa natura come il più opportuno nel rivestire il ruolo di koiné. Sarebbe il caso, ad esempio, del (volgare) fiorentino letterario trecentesco che, per il prestigio datogli da alcuni suoi poeti, fu scelto nel Cinquecento come lingua letteraria della regione geografica italiana e anche, in rivalità con il francese, della Lombardia e delle Venezie.

2) Creazione ex novo di una koiné: una ristretta cerchia di persone competenti, come una commissione composta da linguisti esperti, sviluppa “a tavolino” un idioma che racchiuda elementi comuni appartenenti a tutte le varianti della lingua in oggetto e che possa rivestire il ruolo di koiné. È il relativamente recente caso del romancio nei Grigioni svizzeri, dove negli anni ‘80 del secolo scorso la Lia Rumantscha ha sviluppato il Rumantsch Grischun, un nuovo idioma basato sulle 5 diverse varianti del romancio.

3) Adozione di una “lingua franca”: si elegge al ruolo di koiné una loquela con un affermato prestigio e una completa codificazione. Sarebbe un po’ il caso della Confederazione Elvetica, dove sono state scelte come lingue ufficiali delle tre principali componenti etniche (alemanna, franco-provenzale, lombarda) tre rispettive lingue letterarie prestigiose (tedesco standard, francese standard, italiano standard).

L’ultima modalità esposta viene esclusa per l’aperto conflitto con i principi basilari dell’etnonazionalismo, e perché comunque l’italiano in Lombardia è ormai radicato da secoli e rappresenta la lingua dello stato italiano, lingua nata in Toscana e non in Pianura Padana.

Non ci vuole molto per cogliere che la soluzione migliore per la situazione lombarda è probabilmente una doppia applicazione della prima modalità.

Considerata l’elevata differenziazione del lombardo è infatti praticamente impensabile mettersi a creare una koiné basandosi su centinaia di differenti dialetti.

Per questo riteniamo che la soluzione migliore per il caso lombardo sia l’elezione a koinédel milanese, ovviamente depurato dai forestierismi degli ultimi secoli.

Sosteniamo ciò poiché, oltre a vantare una discreta letteratura moderna e una buona codificazione, il milanese ha la cruciale caratteristica di essere la loquela mediamente più comprensibile per i Lombardi.

Pregio di grande importanza se si considera che il compito primario che dovrebbe svolgere sarebbe quello di consentire una semplice comunicazione tra i Lombardi.

Ma se l’elezione di un dialetto a koiné è, di fatto, una scelta obbligata per quanto riguarda la lingua di comunicazione tra tutti i Lombardi, discorso diverso meritano le varianti locali.

Questo essenzialmente perché il concetto stesso di “variante locale” può avere differenti scale di applicazione.

Per evitare di dilungarci troppo, lasciamo però da parte tutto il dibattito legato alla migliore scala di focalizzazione linguistica e ci limitiamo a dire che, secondo noi, con la definizione “variante locale” vada inteso un insieme di parlate fortemente intercomprensibili.

Nel caso lombardo, le varianti locali coinciderebbero grossomodo con le parlate delle aree geografiche che nelle nostre cartine definiamo come distretti (per esempio, il canton Milano è diviso nei distretti di Milano, Monza, Busto Arsizio, Pavia e Lodi).

Per chi ha visto le succitate mappe, è facile intuire che la relativamente bassa variabilità linguistica dei distretti consente eventuali creazioni ex novo di koiné.

Se sia meglio scegliere l’elezione di un dialetto a koiné anziché la creazione ex novo, si tratta di una decisione che andrà approfondita e valutata caso per caso.

Adalbert Roncari

1 In questo contesto, il termine koiné va naturalmente inteso come la versione di una lingua che, per motivazioni di diversa natura, è comunemente accettata da un’ampia scala di locutori, in contrapposizione alle varianti locali.

2 Teniamo a precisare che, sebbene siano sovente presi come sinonimi, il concetto di “lingua nazionale” è ben distinto da quello di “lingua ufficiale”. La lingua ufficiale è infatti l’idioma che uno stato adotta legalmente per la produzione dei propri documenti ufficiali su tutto il suo territorio, mentre una lingua nazionale è una lingua riconosciuta e tutelata da uno stato solamente in ambiti territoriali limitati. Un ottimo esempio è dato dal romancio, che in Svizzera è lingua nazionale, ma non lingua ufficiale.

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Lombardo, uccidi il borghese che c’è in te!

Pietro_Micca_traditional_picture

Talvolta ci capita di imbatterci in bislacchi individui che hanno l’intelletto di darci dei “fascio-terroni” solo per il fatto che abbiamo recentemente cambiato la nostra opinione sull’Italia e per il fatto che abbiamo messo da parte l’indipendentismo, pur non rinnegando il nostro nazionalismo lombardo. Innanzitutto si vuole ancora precisare che qui nessuno di punto in bianco crede nei retorici Fratelli d’Italia dalle Alpi alla Sicilia, nel Tricolore e tantomeno nell’odierna Italia repubblicana. Siamo tra i primi ad evidenziare la sensibile differenza etnica e culturale che c’è tra i (gran)lombardi e gli italiani peninsulari, ausonici e siciliani in primis. Proprio per questo difenderemo sempre a spada tratta tutte le peculiarità dei popoli alpino-padani, comprese quelle che li distinguono dal resto dell’Italia e li avvicinano alle nazioni mitteleuropee, e  condanniamo l’esodo meridionale nelle nostre terre avvenuto negli ultimi decenni.

Tuttavia, guardando la questione con un minimo di razionalità appare piuttosto esagerato e riduttivo definire i settentrionali solo celto-germanici (come se fossimo affini agli inglesi o agli scandinavi, sempre più sostituiti dagli afro-asiatici tra l’altro) e i meridionali come arabi cristiani, dando la colpa di tutti i nostri problemi a quest’ultimi. Così come appare disonesto e anche ignorante liquidare il termine Italia come un’invenzione di Garibaldi e Cavour, magari accostandolo ai servizi scadenti oppure all’inglese maccheronico di Renzi. Noi, dal canto nostro continuiamo a sostenere che i granlombardi (insubrici, piemontesi, liguri, lombardi cispadani, romagnoli, orobici, veneti, friulani ecc.) rappresentino un gruppo etnico a se stante e difatti non vediamo l’Italia come nazione monolitica, ma come appunto una macroregione europea (così come lo sono l’Iberia, i Balcani, la Britannia ecc) composta da etno-nazioni accomunate da una serie di fattori storici e culturali che non si possono negare.

 Ci sono anche quelli che fanno gli indipendentisti, volendo per esempio una Regione Lombardia (entità creata da questo stato) indipendente esclusivamente per questioni economiche, trascurando del tutto i problemi migratori e la delombardizzazione culturale della Lombardia stessa, problema a nostro avviso più grave. L’Italia stessa, il nord in particolare, è sempre più in declino perchè l’elemento etnico alpino-padano granlombardo è in costante diminuzione ed è completamente inutile auspicare l’autodeterminazione finchè non si capisce questa realtà.  Infatti la verità è che gran parte di queste persone preferirebbe semplicemente vedere un nord annesso alla Svizzera o all’Austria (si tratta di gente che condanna l’Italia in quanto multietnica ma non si fa nessun problema ad esaltare l’impero asburgico) piuttosto che darsi da fare per l’autodeterminazione della propria terra. Ed ecco che qui salta fuori non la voglia di libertà, ma semplicemente il desiderio di scegliersi il padrone migliore, illudendosi del fatto che agli stranieri potrebbe davvero interessare risolvere i nostri problemi. Un esempio analogo è il Canton Ticino, angolo di Lombardia sotto la Svizzera, stato che almeno per ora da un punto di vista economico e sociale funziona si meglio dell’Italia, ma che non può essere definita in nessun modo una nazione. In Ticino è diffusa l’avversione nei confronti non solo degli italiani centro-meridionali ma anche nei confronti dei lombardi amministrati dallo stato italiano. Lombardi che hanno i loro stessi cognomi, i loro stessi dialetti, ritenuti però inferiori solo perchè lo stato italiano gode di servizi peggiori di quelli svizzeri. Nonostante questo però, la lingua di Dante non la mollano, dagli svizzeri tedeschi  e francesi vengono comunque visti come svizzeri di serie b, e la lingua lombarda non gode di nessuna tutela e pure li i ticinesi stessi sono sempre più sostituiti dai meridionali e dagli extraeuropei.

Sorge spontanea una domanda: per quale motivo noi, granlombardi, cisalpini, alpino-padani dobbiamo ritenerci inferiori per affidare le nostre sorti e le nostre terre a genti forestiere? Badate bene che quando si sente dire “meglio stare sotto gli austriaci che con i terroni”, vengono subito in mente coloro che giustificano la presenza di basi militari americane in Europa dicendo “loro ci proteggono, meglio loro dei nazisti e dei sovietici”.  Colui che tra la libertà e la sicurezza sceglie quest’ultima, dimostra di non meritarle entrambi. Se guardiamo la storia notiamo facilmente che nei casi in cui i nostri avi unirono le loro forze per il bene comune hanno dato vita a vere potenze, con cui dovettero fare i conti anche gli stati europei più potenti. Pensiamo alla Lega Lombarda che frenò lo strapotere del Barbarossa, alla Serenissima che unì gli sforzi di veneti e anche dei lombardi per creare una potenza marina che contribuì a frenare l’avanzata ottomana in Europa, al Piemonte per molti secoli saggiamente amministrato dai Savoia grazie ai quali nemmeno i francesi riuscirono a sfondare. Anche il Risorgimento può piacere o no, ma fu comunque frutto dell’intraprendenza lombarda, evento offuscato dallo stato centralista italiano e dalla graduale rinuncia dei settentrionali nel giocare un ruolo fondamentale nella RI. Tutte le volte invece in cui abbiamo preferito il campanilismo e quindi  gli stranieri ai nostri fratelli, non abbiamo fatto altro che finire in situazioni penose. Pensiamo alle condizioni in cui versava Milano sotto il dominio spagnolo, ai veneti istriani e dalmati perseguitati durante l’impero austro-ungarico ed infine ad oggi, quando l’unica minoranza a non contare niente sul nostro territorio sono proprio i popoli alpino-padani.

Senza la dignità e l’orgoglio etnico non si può sperare in nulla di buono ed è anche per questo che l’indipendentismo non è mai stata una nostra priorità: per noi viene prima il Popolo, la nostra Terra e la nostra realizzazione.

 

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Ne PD ne Lega Nord. Siamo lombardi.

Ultimamente nella “Regione Lombardia” vi è un acceso dibattito tra la Lega Nord e il PD sull’ufficializzazione, la difesa e la diffusione della lingua lombarda, in cui la prima si erge a paladino difensore delle culture locali e il secondo a sostenitore della democrazia, del progresso, della fratellanza universale intesi come ideologia secondo la quale la difesa di qualsiasi lingua (specie per quel che riguarda le cosidette lingue minoritarie in Europa) e rettaggio culturale europeo sarebbe un sintomo di chiusura mentale, di anacronismo se non adirittura di Medioevo. In poche parole cose che dovrebbero ormai essere superate e che oggi sarebbero strumentalizzate per motivi politici. Anche se purtroppo ,per colpa della disinformazione perpetrata dai media, queste baggianate sono sostenute da molte forze politiche e da gran parte della gente comune, esse lasciano il tempo che trovano dato che la vera ignoranza e chiusura mentale consiste nell’associare una lingua locale ad un partito politico e sostenere che le loquele lombarde siano solo inutili dialetti italiani quando oltre ad avere caratteristiche linguistiche che lo distinguono nettamente dall’italiano( il quale ricordiamo è una variante di dialetto toscano), siano conosciute insieme al veneto come “lingue in pericolo d’estinzione” dall’UNESCO, dall’ ISO e dal consiglio d’Europa (anche se non c’è bisogno di loro per capirlo) e hanno anche una ricca letteratura storica che risale al XIII secolo. Qui non si vuole offendere la lingua italiana, ma il modo con cui le lingue granlombarde vengano sempre denigrate non può farci restare neutrali. Ridicola è anche l’affermazione secondo la quale la tutela del lombardo contrastasse con la conoscenza dell’inglese, visto che conoscere una lingua non impedisce di conoscerne delle altre.

Oltre a questo non poteva anche mancare la tesi secondo la quale la tutela della lingua lombarda richiederebbe troppi soldi, cioè 300000 euro. A parte il fatto che in confronto al residuo fiscale e agli sprechi perpetrati dallo stato italiano questi soldi sono degli spiccioli, sentire il PD lamentarsi degli sprechi di soldi fa sorridere. Come se la tutela della lingua lombarda danneggiasse l’economia più di quanto l’abbiano fatti gli scandali di Banca Etruria e dei Monte di Paschi di Siena. Inoltre è sempre il PD e altre forze politiche ideologicamente affini, che propongono di spendere denaro e altre risorse per iniziative di discutibile utilità come la costruzione di nuove moschee, festival della cultura Rom ecc, però appena si parla di identità lombarda o veneta arrivano subito le accuse di razzismo e di strumentalizzazione politica. A prima vista può sembrare un esagerazione, ma questi soggetti non si dimostrano tanto diversi dall’ISIS visto che pure loro distruggono testimonianze di antica cultura scomoda per le loro ideologie fanatiche, irrazionali e cosmopolite. Oggi discriminano la lingua lombarda, domani magari proporranno di abbttere il Duomo di Milano per farci sopra un centro commerciale.

Per quel che riguarda la Lega Nord invece, nonostante il fatto che attualmente sia l’unica forza politica rilevante che si dedica a tale tematica va detto che in 30 anni di esistenza avrebbe comunque potuto fare in modo che sia il lombardo che il veneto venissero riconosciute come lingue, invece di continuarli a chiamare “dialetti” , facendo il gioco dei suoi dettratori.

Un altro concetto importante da diffondere è quello di lingue lombarde e di Lombardia, l’estensione dei quali non si limita certo all’odierna regione Lombardia ma comprende pure il Piemonte, l’Emilia e il Canton Ticino con le vallate lombardofone del Canton Grigioni, oggi facenti parte della Svizzera. Infine la lingua deve essere un fattore prima culturale che politico, pertanto stimiamo e supportiamo coloro che pur essendo apolitici si impegnano al mantenere vive le loquele granlombarde. Queste attività per adesso sono ancora concentrate per lo più nell’ambito virtuale, ma il crescente interesse per queste attività ( a prova di ciò c’è la versione in insubrico, orobico, piemontese, emiliano e veneto di wikipedia) non può che essere una cosa positiva.

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La letteratura lombarda

Carlo_Porta

Con l’avvento dell’omologazione e della centralizzazione forzata prima nel Risorgimento e poi del Fascismo, le lingue lombarde, cosí come molte altre lingue parlate nell’allora Regno d’Italia, sono state man mano raffigurate come dei rozzi dialetti dell’italiano da eliminare il prima possibile per far sí che i territori di confine del regno fossero veri e propri baluardi contro i “nemici” transalpini. Nel passaggio alla Repubblica le cose non sono sostanzialmente cambiate e una delle scuse piú ridicole usate per cercare di ridicolizzare il lombardo, delegittimando cosí anche il nostro diritto a usarlo, si appella alla desueta definizione di lingua di origine ottocentesca: una lingua è un idioma codificato con propria letteratura storica.

In realtà, la motivazione proposta è veramente ridicola poiché il lombardo vanta una ricca letteratura storica che si sviluppa pienamente a partire dal Cinquecento, ma che affonda le sue radici in alcune opere in volgare del Duecento.

Andando a parlare di letteratura lombarda, va innanzitutto ricordato che, come nel resto del mondo, la capacità di leggere e scrivere era un’abilità di cui si potevano vantare solo le classi sociali più elevate, le quali vivevano per lo piú nelle grandi città. Per tale ragione la letteratura lombarda si è sviluppata sui due principali poli culturali e politici della Lombardia, cioè Milano e Torino, dando cosí origine a due correnti letterarie (nonché a due grafie classiche) piuttosto separate. Se Torino era il polo accentratore solo per la Lombardia occidentale, Milano ha rappresentato il polo per la Lombardia centrale, orientale e buona parte di quella meridionale. Per quanto riguarda le basi storiche della letteratura milanese, non c’è accordo (tanto per cambiare!) sull’opera o sullo scrittore che potrebbe essere considerato come il riferimento iniziale, anche se molti ritengono il “Sermon divin” di Pietro da Barsegapè la prima pietra miliare della letteratura milanese.

Ricalcando il filone didattico e religioso del Basso Medioevo, l’opera in questione non è altro che un poema popolare risalente al 1264 di poco più di 2400 versi dove si narrano, con toni critici verso la ricchezza e la superbia, le più importanti vicende bibliche. Per altri studiosi bisogna invece attendere giusto qualche anno più tardi con gli scritti di Bonvesin de Laripa (o De La Riva) tra cui spicca il “Libro de le tre Scritture” del 1274: un componimento diviso in tre parti che sembra una sorta di anticipazione della Commedia dantesca.

I lavori di Bersegapè o di de Laripa possono essere sicuramente considerati come le prime opere della letteratura milanese, ma è tuttavia azzardato definirle opere in milanese poiché l’assenza di alcune peculiarità del lombardo (tra cui le vocali anteriori arrotondate e la negazione postverbale) ne evidenziano la natura di volgare scadente. L’uso scritto del volgare lombardo riprende vigore con la signoria dei Visconti, ma per parlare di vera e propria letteratura in milanese bisogna attendere la risoluzione del problema della grafia.

Nel 1606 Giovanni Ambrogio Biffi tenta una prima codifica con il “Prissian de Milan de la parnonzia milanesa”, dove cerca di risolvere il problema delle vocali lunghe e brevi e propone il dittongo “ou” per rappresentare la vocale anteriore arrotondata semichiusa [ø] e semiaperta [œ]. La codifica definitiva avviene però a fine secolo quando Carlo Maria Maggi introduce il trittongo “oeu” per rappresentare i fonemi [ø] [œ] fondando finalmente la grafia milanese classica. Grazie anche alla sua notevole produzione, che spazia dalle poesie alle commedie, come “Il manco male”, “Il Barone di Birbanza”, “I consigli di Meneghino”, “Il falso filosofo”, “Il Concorso de’ Meneghini”, il Maggi può perciò essere considerato il padre della letteratura milanese. Fu inoltre Carlo Maria Maggi a introdurre la maschera di “Meneghin”, l’incarnazione del popolo milanese: umile, onesto, saggio, forte nelle avversità, lavoratore sensibile e generoso.

Il Settecento vede un’esplosione della letteratura in milanese con poeti come Domenico Balestrieri, Carl’Antonio Tanzi, Girolamo Birago, Giuseppe Parini, Pietro Verri, Francesco Girolamo Corio e sopra a tutti Carlo Porta. Carlo Porta è sicuramente il più grande poeta in milanese e le sue opere vanno a colpire l’ipocrisia religiosa del tempo (Fraa Zenever, Fraa diodatt), a descrivere le figure popolari (Desgrazzi de Giovannin Bongee, La Ninetta del Verzee) e a esporre le sue idee politiche (Paracar che scappee de Lombardia, E daj con sto chez-nous ma sanguanon), cui si aggiungono dei sonetti in difesa del milanese (I paroll d’on linguagg car sur Gorell) e di Milano (El sarà vera fors quell ch’el dis lu). Il Porta indica il milanese come “lengua del minga e del comè” e designa come scuola della vera lingua del popolo il Verzee, il mercato della verdura di Milano. Nell’Ottocento nascono numerosi giornali in milanese, ma sicuramente è doveroso segnalare i dizionari: il Cappelletti, il Banfi, l’Arrighi, l’Angiolini e l’opera monumentale del Cherubini.

Con l’età contemporanea, cadono purtroppo in disgrazia sia la letteratura sia la lingua parlata e i pochi contributi in milanese, come quelli di Delio Tessa e Giovanni Barrella, si riempiono di patetici toscanismi.

Nell’area di influenza del milanese va tuttavia citata la letteratura bergamasca: degne di nota sono la traduzione seicentesca dell’Orlando furioso di Alberto Vanghetti e gli scritti settecenteschi dell’abate Giuseppe Rota.

Discorso particolare necessita invece la letteratura occidentale. Gli importanti traffici commerciali con la Provenza, e la storia politica che ha portato il Piemonte a essere sotto l’amministrazione savoiarda e non con il resto della Lombardia, hanno difatti rappresentato elementi di peculiarità nello sviluppo sia del lombardo occidentale che della sua letteratura. Come per il milanese, vi è dibattito su quale possa essere considerato come il primo documento della letteratura piemontese, ma la molti ritengono che i “Sermoni Subalpini”, una raccolta di ventidue omelie complete risalenti alla seconda metà del XII secolo, siano la prima opera in volgare occidentale. In questo periodo la Lombardia occidentale inizia inoltre a subire l’influsso della poesia provenzale tanto che, accanto ai trovatori provenzali, ci sono anche celebri piemontesi, come Nicoletto da Torino, e nelle vallate alpine il provenzale si afferma come lingua parlata dal popolo. Nei secoli successivi vi è una lenta evoluzione del volgare che diventa piemontese solamente all’inizio del Cinquecento con le opere di Gian Giorgio Alione di Asti. La raccolta piú importante è sicuramente la “Opera Iocunda no. D Johanis Georgii Alioni astensis – metro maccaronico materno et gallico composita” nel secondo decennio del secolo citato che contiene scritti sia in piemontese (tra cui i “zeu da carlever”) sia in francese.

Nel diciassettesimo secolo la lingua è ormai matura e verso la fine il Marchese Carlo Giambattista Tana di Entraque compone la celebre opera teatrale “Ël Cont Piolèt”, che viene subito rappresentata con molto successo ma che sarà stampata solo alla fine del secolo successivo. Verso la fine del Settecento il piemontese diventa oggetto di studio e nel 1783 nasce la prima “Grammatica piemontese” grazie al medico Maurizio Pipino (autore anche di un vocabolario quadrilingue) che la dedica alla principessa di Piemonte, di origine francese e desiderosa di imparare la lingua locale: a differenza del resto della Lombardia, il Piemonte si è difatti affermato come stato e quindi l’uso ufficiale del piemontese diventa uno strumento di legittimazione del dominio sabaudo. Con l’Ottocento si forma il teatro piemontese e l’esponente più noto è Vittorio Bersezio: tra i suoi lavori vanno citati “La sedussion”, “La beneficenza” e il celebre “Le misérie ‘d mossù Travet”. Come per il milanese, l’Ottocento è però anche il secolo dei giornali in lingua locale e dei dizionari: sono difatti editi il Capello, il Zalli, il Gavuzzi e il grandioso Conte Vittorio di Sant’Albino. Anche per il piemontese l’età contemporanea riserva la medesima storia delle altre lingue lombarde e sia la letteratura sia la lingua parlata sono velocemente abbandonate.

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