Perchè siamo Lombardisti

Per chi ci conosce bene appare evidente che da un punto di vista ideologico noi di Grande Lombardia assumiamo posizioni controcorrente non solo nel contesto di questa società globalizzata in cui sono in voga i disvalori mondialisti, ma anche nel contesto della cosidetta “area” nazionalista/identitaria italiana in cui nella stragrande maggioranza dei casi fa da padrone l’idea italianista, spesso ispirata al famigerato ventennio e che dunque non vede di buon occhi qualsiasi istanza non solo indipendentista ma anche autonomista o federalista, bollandola come un qualcosa di dannoso in questi tempi, che non farebbe altro che danneggiare la “Sacra Patria” italiana.

Anche se per qualcuno è un concetto duro da comprendere è un controsenso allucinante cercare di combattere il pensiero unico esaltando gli stati sovranazionali ottocenteschi come appunto l’Italia, la Francia, la Spagna o il Regno Unito. Perchè se analizziamo la storia di questi stati notiamo facilmente che essi hanno avuto delle dinamiche incredibilmente simili al sistema globalizzato che oggi cercano di imporci. Sia in Italia che in Francia (non è un caso se si dice che la Repubblica Italiana sia una creazione francese) e nella Spagna di Franco, ma anche nella Gran Bretagna (basta ricordare i crimini perpetrati dagli inglesi a danno degli irlandesi) si è sempre cercato di assimilare le minoranze etno-linguistiche a volte con le menzogne e e le falsificazioni e a volte anche con la violenza. E badate bene che qui non parliamo solo di quelle minoranze comprendenti poche milgiaia di individui, spesso situate nelle zone presso i confini, ma di quelle realtà etniche e storiche, che possono essere tranquillamente considerate delle nazioni senza stato  non solo grazie all’estensione del proprio areale paragonabile agli odierni stati europei di medie dimensioni, ma anche grazie all’esistenza di una propria lingua e di una propria cultura particolare che in molti casi fu considerata prestigiosa in passato, pensiamo all’occitano, al veneto ma anche alle loquele gallo-italiche come il piemontese e il genovese.

Proprio per questi motivi appare chiaro che tutti i discorsi il cui obiettivo sarebbe quello di affermare che gli italiani dovrebbero smetterla di cianciare di “deliri campanilisti” e “nazileghisti” perchè dovremmo stare più uniti in questi tempi si differenziano ben poco dalle quattro frasi fatte di coloro che affermano che l’euroscetticismo sarebbe un male oppure che le razze e le etnie non dovrebbero esistere in quanto questa divisione creerebbe guerra fra poveri (sic!). Proprio perchè noi siamo etnonazionalisti coerenti (se il primo beota che passa ci da dei “regionalisti localisti” non è un problema nostro) rifiutiamo qualsiasi tipo di mondialismo in qualsiasi scala, cioè sia quello che vuole fare gli italiani costringendo i lombardi etnici a rinnegare la componente gallo-romanza e mitteleuropea della propria identità (come avviene purtroppo con successo dal 1861 e badate bene che affermare ciò non significa affatto rinnegare la propria componente sudeuropea) , così come quello che vorrebbe un Europa abitata da “brasiliani” che si considerino cittadini del mondo.

In poche parole, chi critica l’immigrazione afro-asiatica ma rimane indifferente o adirittura felice davanti alla scomparsa dei popoli autoctoni alpino-padani dovrebbe tacere, chi invece si lamenta di essere “schiavi di Roma” e di dover mantenere il Mezzogiorno, ma considererebbe come “nuovi lombardi” qualsiasi extraeuropeo, dovrebbe fare lo stesso.

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Anche quelle piccole sono vittorie

Ieri si è concluso il referendum per l’autonomia delle Regioni “Lombardia” e Veneto, le quali hanno visto un’affluenza rispettivamente del 40% e del 60%.

In entrambi i casi più del 90% dei votanti si è espresso a favore di maggiore autonomia dallo stato italiano. Anche se i detrattori cercano di sminuire i risultati del referendum lombardo (fare lo stesso con quello veneto è un pò più dura) allundendo all’affluenza che è stata inferiore al 50%, non si può certo trascurare il fatto che 3 milioni di residenti della Regione Lombardia si siano fatti avanti per esprimere il proprio consenso su quella che viene anche chiamata questione settentrionale. Appare evidente che in Veneto il successo sia stato più grande,  tuttavia anche i risultati del referendum lombardo non possono essere considerati un fallimento, considerando anche l’assenza del quorum.

Oltre ad essersi presentata l’opportunità di miglioramento della situazione da un punto di vista fiscale, opportunità che i lombardo-veneti hanno saputo sfruttare relativamente bene, i risultati delle votazioni evidenziano anche altre tendenze positive:

  • La maggioranza schiacciante dei votanti, come è stato evidenziato sopra, ha votato per il sì, mentre gli scettici e i nemici dichiarati del referendum (nonchè i nemici di ogni istanza di autodeterminazione, dai neofascisti ai marxisti arcobalenati) hanno pensato bene (senza ironia) di non votare proprio. Questo dimostra che la parte più sana della popolazione della Lombardia e del Veneto si è dimostrata politicamente più attiva, nonchè più interessata al proprio destino e al destino della propria terra, il che ci rende alquanto fiduciosi.
  • In Veneto c’è stata un’affluenza maggiore che in Regione Lombardia, mentre nella Regione Lombardia stessa le affluenze nel bresciano e nel bergamasco sono state nettamente più alte che a Milano. In poche parole si è visto maggiore interesse a tematiche di autodeterminazione in quelle aree che sono state meno colpite dal degrado migratorio degli ultimi decenni. Anche se qualcuno potrebbe pensare che questa sia una coincidenza, questo dato darebbe conferma del fatto che nulla ci vieta di conciliare la lotta all’immigrazione di massa con la lotta per il diritto all’autodeterminazione dei popoli granlombardi, ormai ridotti a minoranza nella propria terra.
  • In Europa stiamo assistendo anche ad altre tendenze e cambiamenti positivi come in Catalogna e in Europa Centrale dove alle recenti elezioni in Cechia, Austria e Germania hanno avuto fatto evidenti progressi i partiti euroscettici contrari alle politiche migratorie di Bruxelles.

Ora non ci resta altro che vedere se i risultati di ieri porteranno veramente qualcosa di concreto, anche solo in termini economici e dal nostro canto vogliamo ribadire sia ai Lombardi che ai Veneti di buona volontà di sfruttare bene anche le altre occasioni come queste che capiteranno in futuro, innanzitutto per se stessi e per dimostrare che la nostra causa non è persa come molti vorrebbero farci credere,  e non certo per fare un favore alla Lega Nord. E infine ricordatevi che il vero concetto di Lombardia e di Veneto è ben più ampio e profondo di quello compreso dai suddetti enti amministrativi attuali e che entrambe meritano di essere considerate molto di più che delle semplici regioni italiane più ricche delle altre.

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Andate a votare!

Come molti sapranno, domani si terrà il referendum sull’autonomia della Regione Lombardia e della Regione Veneto.

Per quanto le suddette entità amministrative non abbiano confini etnolinguistici corretti, va comunque considerato che una devoluzione dei poteri da Roma a queste regioni sarebbe di gran benificio per i Granlombardi che abitano sotto la loro giurisdizione.

Del resto niente vieta che i confini possano essere in seguito modificati con referendum locali, come quello che una coalizione di cittadini sta avviando nelle province di Novara e del Verbano Cusio Ossola per passare dalla giurisdizione della Regione Piemonte a quella della Regione Lombardia.

Abbiamo spesso sentito dire da più fonti che si tratta di un referendum inutile perché in quanto consultivo non è vincolante e le Regioni potrebbero già di loro iniziativa chiedere più poteri.

In effetti, si può rinoscere ai detrattori del referendum che non si conosce l’efficacia pratica del voto visti che non vi è alcun vincolo e che dovrà nascere una trattativa tra la Regione e il governo centrale per ottenere maggiore autonomia.

Nonostante ciò, quello che sicuramente si può ottenere è un chiaro messaggio della popolazione contro lo sfruttamento assurdo e i soprusi burocratici (non esiste pari al mondo) cui i Granlombardi sono soggetti da parte della Repubblica Italiana.

Abbiamo infatti davanti ai nostri occhi il caso della Comunità autonoma della Catalogna che, stufa di regalare ben 8 miliardi al resto del Regno di Spagna, sta chiedendo l’indipendenza perché è stato loro rifiutato un serio federalismo.

Ma se la Catalogna ha diritto di fare la vittima perché in 5 milioni di abitanti devono versare 8 miliardi a Madrid, cosa dovrebbe fare la Regione Lombardia che in 10 milioni di abitanti versano tra i 50 e i 70 miliardi annui netti a Roma?

Una cifra procapite che è oltre 5 volte quella catalana!

Che poi fossero soldi che aiutassero veramente l’economicamente arretrato Suditalia a uscire dallo stato in cui trova!

In realtà, questi soldi finiscono principalmente ad alimentare il parassitismo romano e alle varie organizzazioni criminali di stampo mafioso presenti nel Sud della penisola.

Per queste ragioni possiamo quindi pensare che il voto di domani possa essere considerato una sorta di elettrocardiogramma della popolazione.

Vedere insomma se l’ “organismo” è ancora voglioso di vivere e sconfiggere il parassita che lo affligge o se è oramai arrivato allo stadio finale e si è quindi arreso al decorso fatale della malattia.

Per questo Grande Lombardi invita tutti i Granlombardi che hanno diritto a votare nei referendum che si terranno domani a partecipare e a votare Sì.

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La democrazia repressiva e la sua battaglia contro l’odio e il complottismo

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Сome accade negli ultimi anni, anche questa volta, nel mondo occidentale il mese di giugno trascorre nel nome dell’apertura e della tolleranza nei confronti delle minoranze-lobby, che nonostante tutto non sarebbero ancora abbastanza privilegiate. Ovviamente non mi riferisco solo alla recente approvazione del matrimonio omosessuale in Germania, ma anche alle oscene marce organizzate da quei covi di pervertiti delle lobby LGBT, che purtroppo in questo ultimo mese hanno avuto luogo in diverse città italiane, con tanto di demonizzazione di chi si è opposto anche in modo pacifico.

Attenzione, qui non si tratta di istigare alla violenza oppure all’emarginazione o all’odio nei confronti di quella categoria di persone con diversi orientamenti sessuali (come fanno per esempio nella filooccidentale Arabia Saudita), ma di evidenziare come la maggior parte delle iniziative politiche “umanitarie” e “democratiche” vengano usate per la distruzione della civiltà europea.

 In questa sede non ho intenzione di discutere sul fatto se l’omosessualità stessa sia un fenomeno accettabile o meno, anche perchè nonostante tutto dovrebbe pur essere ovvio a qualsiasi persona ragionevole che tale fenomeno, per motivi di buon senso, non può essere tollerato in quei casi in cui si parla dell’istituto della famiglia, oppure quando gli omosessuali diventano delle lobby che iniziano a pretendere che sia la società a doversi adattare a loro.

Ciò nonostante sono ben consapevole del fatto che per l’ameba occidentale media o per altri soggetti succubi del pensiero della Scuola di Francoforte, sia bastato leggere la parte precedente di questo articolo per giungere alla conclusione che l’autore sarebbe un pericoloso neonazista che baserebbe la sua ideologia sull’odio, la paura, il pregiudizio o magari anche sull’ignoranza (?).

In effetti capita spesso di essere accusati di sostenere idee che si basano sull’odio oppure sulle “paranoie complottiste”. In verità però basta avere un minimo di cervello e di senso critico per capire che queste accuse non solo sono dei metodi semplici per cercare di zittire l’avversario senza argomentare, ma anche delle accuse con ben poco senso, fatte principalmente con lo scopo di far leva sulla debolezza, l’ingenuità e l’ignoranza del popolino.

Per prima cosa bisognerebbe capire chi lo stabilisce che cos’è l’odio? Significa parlare di qualcuno o qualcosa  con parole sprezzanti? Oppure forse per essere accusati di questo grave crimine basta anche rivolgere una critica equilibrata esprimendo il proprio disaccordo su un determinato argomento? Questa domanda è doverosa perchè oggi vengono accusati di odio non solo quelli che istigano ad uccidere gli immigrati o gli omosessuali, ma anche chi in tono pacato si permette di dire che l’immigrazione di massa e la tutela di certe minoranze, che in Occidente diventano lobby, stia sfuggendo di mano. Eppure se si parla di odio in quanto sentimento (sentimento che prova qualsiasi essere umano) anche le frazioni politiche opposte lo provano, o volete forse dire che le varie denigrazioni mediatiche nei confronti dei movimenti nazionalisti/identitari, le aggressioni dei centri sociali non siano anche esse espressioni di odio? O forse qualcuno avrebbe anche il coraggio di insinuare che queste sarebbero solo questioni che possano stare a cuore esclusivamente a dei neonazisti complottisti ed asociali?

E qui si pone un’altra questione riguardante un altro termine oggi molto in voga, cioè il complottismo. Si tratta di un altro termine che viene usato a destra e a manca per indicare chi insinua che nei gesti e nelle affermazioni dei politici ci possa essere un secondo fine. Lasciando da parte i vari patetici accostamenti a teorie che supportano l’esistenza degli UFO, dei rettiliani, siamo davvero così sicuri che l’inaffidabilità del politico medio sia veramente una teoria basata sulla paranoia? Eppure anche in Italia, il cittadino medio non si fa alcun problema ad affermare che la politica moderna sia marcia proprio per il medesimo motivo. Questo porta alla conclusione che l’accettazione di una teoria o la ridicolizzazione di essa, di solito non dipendono tanto dalla probabilità che essa sia vera, ma dall’inclinazione politica ed ideologica di una determinata persona. Gli stessi che muovono accuse di complottismo, difatti non si fanno problemi a loro volta di riconoscere l’esistenza di complotti razzisti, omofobi o nazifascisti che siano, quando gli fa comodo. Per esempio quando dicono che Salvini ed altri politici leghisti seminino odio nei confronti dello straniero per alimentare una guerra tra poveri (?), oppure in quei casi in cui ti dicono che i movimenti populisti dell’Europa Occidentale siano finanziati da Putin. Qui, non si vuole prendere le difese di questi sopracitati soggetti, spesso ingiustamente ritenuti dei paladini dell’Europa, ma ritengo doveroso evidenziare il fatto che chi parla di complottismo lo fà o per ipocrisia, oppure perchè è semplicemente una pecora, che si illude del fatto che il mondo sia trasparente. Questo ovviamente lo dico senza negare che in molti casi siano presenti entrambi le motivazioni.

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Padania o Grande Lombardia?

fllgaAnche se sovente veniamo associati alla Lega Nord da diverse categorie di persone (dai fascisti-statalisti ai simpatizzanti della sinistra occidentale), non ci stancheremo mai di rimarcare la nostra estraneità a questo partito. Anche se agli occhi di una persona poco documentata la LN possa sembrare un movimento etnonazionalista, essa in verità non lo è mai stata. Già negli anni 80, pur avendo da subito attirato al suo interno persone di diverse sfumature ideologiche, essa nacque come un movimento libertario i cui discorsi economici ricoprivano un primo piano, lasciando ai margini la questione immigratoria insieme a quella etno-linguistica. Uno a questo punto potrebbe controbattere dicendo che la questione economica alla fine è ciò che interessa di più alla massa e che dunque sarebbe l’unico metodo per attirare un numero consistente di gente. Peccato però che in quei casi in cui si fa leva solo ed esclusivamente sulle questioni fiscali, senza una solida e precisa ideologia che non cambi a seconda di come soffia il vento (ricordiamo i dilemma “Padania libera-Federalismo fiscale-Lega Nazionale) non si andrà mai da nessuna parte perchè finirà che ognuno metterà i propri interessi personali al di sopra di quelli della comunità, giungendo in questo modo ad inconcludenze su tutti i fronti ed a conflitti interni.

In questi tempi bui l’etnonazionalismo comunitarista (le cui priorità non escludono affatto le questioni economiche,ma le contestualizzano in un discorso più ampio)rappresenta l’unica giusta ideologia che possa unire i lombardi di buona volontà per l’autodeterminazione, proprio perchè antepone gli interessi della comunità etnica a quella dei singoli e delle lobby foraggiate dall’attuale sistema globalizzato. Il tempo delle divisioni tra i guelfi e i ghibellini, tra i comunisti e i fascisti è finito da un pezzo; oggi la contrapposizione è tra gli autoctoni e gli allogeni e tra i nazionalisti e i mondialisti.

Saluu Lombardia!

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MMDCCLXX Ab Urbe Condita

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L’anno nuovo si apre nel segno di Giano, dio squisitamente italico-romano preposto agli inizi, il cui duplice volto guarda al passato e al futuro rivelando un terzo volto proiettato sul presente, che saremmo noi. Il nome di Ianus allude alla porta (ianua) posta a guisa di passaggio tra il vecchio e il nuovo ma anche tra l’esterno e l’interno e la sua arcaicità ci comunica quanto la valenza da esso incarnata fosse celebrata dai nostri antichi Padri italici e romani.

Giano si pone al principio delle cose materiali e immateriali e apre il nuovo anno facendo da traghettatore che aiuta ad attraversare il guado dal passato al futuro, come un ponte che serve a metterci in comunicazione con il nuovo senza dimenticare il vecchio perché le nostre radici affondano nella Storia e da essa traggono quella linfa vitale necessaria ad intraprendere il cammino identitario. Senza passato non c’è futuro, ma non si deve dimenticare la dinamica del movimento che proprio Giano ci insegna, per evitare così di fossilizzarci, di impantanarci in una fase di stallo poco proficua senza osare per guardare dinnanzi a noi, al domani che ci attende, si spera, radioso, e che va affrontato con eroico piglio giorno dopo giorno.

Il nostro Capodanno civile (ma anche sacro) segue quello astronomico che abbiamo celebrato il 22 dicembre scorso, nel solstizio d’inverno la cui vera epifania si manifesta nel giorno di Natale (quello vero, ovviamente), festeggiato il 25; in quella data il sole, dopo la sua caduta nelle tenebre, risorge e lentamente riprende quel cammino che lo porterà a guadagnare terreno sulla notte, sull’oscurità, sino a raggiungere il suo massimo trionfo nel solstizio d’estate.

Giano è creatore e procreatore, padre degli dei, nostro e del mattino, inaugura l’anno nuovo denominando il primo mese tanto che nella religione italica arcaica ricopriva una funzione preminente, più importante di Saturno e di Giove stessi essendo egli l’iniziatore di tutte le cose; nel suo nome avevano inizio le cose materiali (naturali ed agresti, ma anche civili, ad esempio) e spirituali (cicli di rinnovamento che si ricongiungono poi all’ultimo giorno dell’anno sotto gli auspici di Saturno) tutelate dal suo sguardo bifronte rivolto sia verso ciò che è stato sia verso ciò che sarà, consegnandoci il presente che noi rappresentiamo ogni giorno della nostra vita terrena.

È proprio alla luce di tutti questi interessantissimi aspetti tramandatici dai culti tradizionali e dalla loro memoria difesa e conservata dai custodi della Tradizione (indirettamente, pure dalla Chiesa cattolica romana che si è appropriata degli antichi simboli riciclandoli in chiave cristiana), che il 29 dicembre scorso, con alcuni sodali, ho partecipato ad un suggestivo rituale, semplice e frugale, oserei dire archetipico, ma proprio per questo frutto della genuina spiritualità di colui che lo ha predisposto. Da questa celebrazione emerge la potenza del simbolo, perché noi abbiamo bisogno di simboli per poterci congiungere sacralmente al ricordo dei nostri Avi e della loro inestimabile cultura religiosa. Capiamoci: qui non si tratta di scimmiottare la liturgia cattolica (che, anzi, è quella che ha scopiazzato malamente i riti gentili degli Indoeuropei mescolandoli alle stramberie abramitiche) o di limitarsi alla pratica esteriore come fosse sterile esercizio narcisistico: la questione è molto più importante e profonda.

Se ci fermassimo al rito, alla liturgia, avremmo capito poco o nulla; noi dobbiamo fare tesoro dei simboli, dei gesti, delle parole per poter – mi si passi il termine – digerire al meglio e assimilare la valenza più intima dei culti tradizionali, che era quella di rinnovarsi mediante l’esercizio spirituale interiore, finalizzato a cambiare in meglio, affinando la nostra sensibilità spirituale e culturale. È fondamentale vivere queste occasioni come dono tradizionale dei Padri che ci invitano, mediante essi, ad entrare in comunione con loro per poi mettere in pratica, quotidianamente, gli insegnamenti eterni di sapienza gentile che oggi più che mai dobbiamo recuperare. Tutto questo non può venire dal cristianesimo, dal giudaismo, dall’islam, da altri culti stranieri o peggio ancora dall’ateismo che strizza l’occhio alla paccottiglia new age e wicca (forme di modernismo consumistico, di deviazione); può solo venire da quella sottile linea rossa di Sangue ariano che ci ricollega alle origini etno-culturali d’Italia e d’Europa ma non per giacere in una fase di stagnazione, bensì per affrontare al meglio le sfide di tutti i giorni che il futuro ci riserva.

Radunati attorno ad un falò inscritto in un cerchio di sassi, nella suggestiva cornice naturale di uno scorcio di Lario reso suggestivo dall’antica presenza in zona di genti gallo-romane devote a Cerere, i convenuti hanno celebrato la rinascita solstiziale del sole ma con lo sguardo di Giano rivolto al Capodanno, essendo agli sgoccioli del MMXVI. Il cerchio ha trovato il giusto equilibrio nella fondamentale presenza dei quattro elementi ossia acqua, fuoco, terra e aria, accompagnati dai doni offerti durante il rito tra cui il ruolo di protagonista tocca ovviamente al vino. Abbiamo bruciato il consueto vecchiume che volevamo lasciarci alle spalle per affrontare con la giusta serenità il domani, liberandoci da quei pesi che gravano sull’anima, anche per cercare così di raggiungere la giusta sinergia con le forze della natura circostanti, scacciando quanto di negativo potesse intromettersi. Il rituale si svolge in pieno spirito comunitario di solidarietà ed unione cameratesca, in armonia con la natura circostante e sotto un cielo invernale grigio che rende però magica l’atmosfera comense lacustre e prealpina, ed affascinante lo scenario che ci fa da sfondo.

Come ho ricordato poco sopra non ci si può fermare al rito e alla pratica esteriore, altrimenti il tutto rimane sterile per quanto sia attraente; si deve metabolizzare quanto il rito ci comunica anche per riuscire a leggere tra le righe e comprendere appieno il significato più intimo di questa frugale celebrazione, una celebrazione oserei dire davvero pagana ossia agreste, rustica, in linea con la semplicità perduta che i nostri Avi mettevano nel culto. E così facendo la vera potenza del simbolo non rimane sulla carta ma viene assunta da noi, illuminati dallo spirito della Tradizione che ci infonde sapienza, conoscenza, capacità introspettiva e anche la volontà di essere esempio per gli altri, a partire dai nostri cari e dalle persone a noi più vicine.

Credo infatti che la valenza più importante e bella di questi genuini momenti di condivisione stia proprio nel farsi comunità, nel ritrovarsi attorno ad un fuoco sacro immersi nella natura e riscoprirsi così parte di un territorio e di una cultura che hanno fortissimamente bisogno di noi e dei modelli positivi che dobbiamo incarnare, per non morire. Essere strumenti di un disegno cosmico latore di grandi ed elevati ideali implica grande forza di volontà e sacrificio, non è sicuramente da tutti e per tutti, ma dobbiamo comunque cercare nel nostro piccolo di brillare per squarciare il velo dell’omologazione ai tenebrosi dettami del conformismo borghese e mondialista e raddrizzare il tiro che la modernità ha preso almeno da settant’anni ad oggi.

Sono grato a chi mi ha permesso di prendere parte ad una cerimonia densa di simboli e di spunti per la riflessione, importanti se utili a migliorare sé stessi e l’ambiente circostante nel nome dell’Identità e della Tradizione che gli Avi ci hanno tramandato. Grazie al sacro consesso si riscopre una parte basilare della spiritualità locale e nazionale e si può anche cogliere come il cristianesimo cattolico abbia pesantemente assorbito (e riutilizzato) i fasti gentili per farsi strada nell’Europa romana; paradossalmente la Chiesa cattolica offre il destro per scavare nella sua liturgia cogliendo così le vere radici di molta parte (se non tutta) del calendario annuale da essa svolto. So che diversi, tra chi sta leggendo, potrebbero dirmi che a suo modo la Chiesa è tradizione iniziatica a fronte di una gentilità antica “interrotta”; personalmente, credo che la Tradizione vada recuperata possibilmente depurandola da ogni patina cristiana, che ne ha pervertito il senso, perché solo così possiamo gustare pienamente di quel calice colmo di delizia primigenia donata a noi dagli antichi progenitori arii.

E solo così possiamo inoltre divenire coerenti araldi del messaggio identitario e patriottico che deve essere corroborato dalla tutela delle vere radici d’Europa, che ovviamente non sono quelle con cui amano trastullarsi preti, rabbini e imam e tutti i vari reazionari di area cristiana, convinti di difendere la più intima essenza del nostro Continente biascicando formulette religiose scritte in libri estranei alla cultura indoeuropea.

Sperando abbiate trascorso una lieta fine d’anno – sebbene quello appena trascorso ci abbia riservato moltissime amarezze in termini di polis – concludo augurandovi un MMXVII (come il Natale scorso caduto, peraltro, di soledì!) all’insegna del rinnovamento comunque conscio del proprio passato, la cui migliore lettura ci viene fornita dall’antica datazione romana Ab Urbe Condita. Sta infatti nell’eterna romanitas la chiave della resurrezione spirituale e materiale, scandita dalla rinascita del sole, frutto di una decisa presa di coscienza identitaria che ci renda finalmente Italiani valenti e orgogliosi della propria inestimabile eredità latina, sotto l’egida di Giano che ci guida alla nuova avventura pronta a dipanarsi lungo il susseguirsi delle stagioni di questo MMDCCLXX AVC.

Saluu Lombardia!

Ave Italia!

Paolo Sizzi

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Europei ed Eurorimbambiti

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Questa settimana è stata segnata da 4 eventi a dir poco clamorosi, cioè la presa di Aleppo da parte di Assad, con la conseguente indignazione dell’Occidente, l’uccisione dell’ambasciatore russo in Turchia e infine l’attentato a Berlino, città, che per motivi che ormai conosciamo bene, non è più così estranea alla realtà turca e mediorientale. Attentatore che pochi giorni dopo fu ucciso in una sparatoria contro la polizia, nella nostra Milano. Del resto è naturale, siamo nella UE, che per principio ha la libertà di movimento di chiunque, no? Ma il fatto che colpisce di più, non sono tanto gli eventi stessi di per sè, ma la reazione dell’Occidente che si rivela a volte strana, a volte semplicemente deplorevole.

Ovviamente, nessuno, nonostante gli attentati di Parigi, di Bruxelles, di Nizza e di Berlino, ha deciso di rinnegare il sacro dogma “multiculturale”, ma anzi si è pure rimarcato di voler continuare la politica di tolleranza, di apertura e di difesa dei valori occidentali. E qui, talvolta subentra anche l’altra faccia della medaglia, ossia coloro che сriticano l’immigrazione afro-asiatica, solo per il fatto che il problema starebbe nell’islam stesso e non nella deleteria filosofia partorita dalla Scuola di Francoforte, adottata dall’Europa come modello, dal dopoguerra in poi. Che senso avrebbe combattere l’islam per difendere dei pseudovalori come i “diritti civili”, la società consumista e altre oscenità, che non sono altro che dei sintomi di una civiltà decadente, in attesa di essere sopraffatta da altri popoli più forti con filosofie di vita più tradizionali? A qualcuno piace associare gli islamisti radicali ai nazionalisti europei, ma guardate che nei fatti i  migliori alleati di questi beduini sono appunto i governi occidentali, che favoriscono i loro esodi in Europa, dichiarando guerra ai regimi laici e autonomi del Nordafrica e del Medio Oriente, i quali talvolta hanno una funzione di blocco dei flussi migratori (ricordiamo Assad, il famigerato Gheddafi, ma anche l’Iraq, dove le armi di distruzione di massa non sono mai state trovate, però in compenso abbiamo l’ISIS).

La colpa dei disastri mediorientali, così come quella dei recenti attentati in Europa, dunque non è dei cosidetti neonazisti populisti, ma degli stessi poteri forti che ormai da decenni fanno di tutto per marginalizzare la cultura tradizionale europea imponendoci la società consumista e multirazziale. E difatti gli arabi, immigrati di seconda-terza generazione che vivono in Europa,  che spesso e volentieri si avvicinano a correnti islamiche radicali, non se la prendono con i governi occidentali, anzi, capita spesso di notare le bandiere della Free Syrian Army nei cortei a favore dei “rifugiati”, ossia degli invasori, che vengono in Europa per vivere di assistenza sociale. La Free Syrian Army  viene spacciata dai media occidentali come opposizione siriana moderata ma in verità di siriano e di moderato ha ben poco, anche perchè è sostenuta non solo dagli USA, ma pure dall’Arabia Saudita, il paese fondamentalista, che però a differenza dell’Iran (denigrato sovente dai media occidentali) è tra i più grandi alleati dell’Occidente. Quindi, questi signori, così come quelli europei che amano baloccarsi con i sensi di colpa nei confronti del Terzo Mondo hanno ben poco da lamentarsi, delle atrocità del malvagio uomo bianco, visto che questi jihadisti “naturalizzati” dimostrano di essere semplicemente delle pedine funzionali ai veri carnefici del Medio Oriente, ossia USA e Arabia Saudita. E qui vorrei ricordare anche che la sinistra occidentale si diceva a favore dello spodestamento di Gheddafi, anche se oggi usa come scusa le guerre provocate in Medio Oriente, per accogliere parassiti di tutto il Terzo Mondo.

Appare inoltre emblematico il fatto che dopo la presa di Aleppo da parte dell’esercito siriano, sostenuto dai russi, a Parigi viene pure spenta la Tour Eiffel, in segno di solidarietà con i terroristi, e dopo pochi giorni viene  ucciso a colpi di pistola l’ambasciatore russo in Turchia, in segno di vendetta, sempre per Aleppo.

Da una parte dunque abbiamo i mondialisti occidentali e islamisti (i quali per quanto possano sembrare all’apparenza diversi, hanno molti più punti in comune di quello che si potrebbe pensare), dall’altra invece i nazionalisti europei, ma anche quei mediorientali che a casa loro combattono con i fatti il demone atlantista-saudita e i suoi tirapiedi. In poche parole noi siamo per l’Europa e non per il concetto distorto di Occidente, imposto a noi ormai da 70 anni.

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La cialtroneria della storiografia ideologizzata

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La nostra storiografia risente ancor oggi, a proposito di Alto Medioevo e di popoli “barbarici”, del giudizio sprezzante e negativo che ne diedero a suo tempo autori come Alessandro Manzoni, personaggi ideologizzati che per questioni di retorica patriottarda ottocentesca erano soliti bollare come aberrazione tutto quello che si discostava dalla romanità, dalla latinità e soprattutto dalla cristianità cattolica dell’Italia. Bersaglio principale furono i poveri Longobardi, massacrati iniquamente dando corda alle testimonianze, decisamente di parte, dei loro nemici, soprattutto papi e Franchi.

Fermo restando che la principale eredità culturale italiana è stata, è e per sempre sarà quella romana, latina, e dunque romanza, va riconosciuto l’eccesso di zelo patriottico di coloro che in epoca risorgimentale, ovviamente per ragioni di retorica e di germanofobia anti-austriaca, si sono avventurati in alcuni campi umanistici giungendo a conclusioni del tutto arbitrarie ed ingiuste sul nostro passato, esibendosi in quello che, a tutt’oggi, è uno sport sciovinistico italiano: il supermercato della storiografia e dell’etnografia. In altre parole del capriccio, caratteristico dei faziosi, in cui a seconda delle proprie inclinazioni si sceglie quale periodo salvare e quale invece cestinare, come fosse stato un gigantesco scherzo della storia da dimenticare e occultare sotto il tappeto del nazionalismo di cartapesta.

I Romani van bene i Celti no, gli Etruschi sì i Longobardi no, l’eredità greca del Sud sì ma quella gallica del Nord no e così via. Attenzione, il fenomeno è esecrabile anche capovolto, e qui entrano in campo le mascherate pontidesi della Lega che vorrebbero ridurre il Settentrione d’Italia ad una sterminata distesa di “barbari” che nulla avrebbe a che fare con Roma e il mondo classico del Mediterraneo. Qui insomma si stigmatizza il settarismo e la partigianeria di chi vuole piegare la nostra storia ai propri capricci propagandistici, ed è proprio per questo che il sottoscritto ha deciso di prendere le distanze sia, naturalmente, dall’italianismo cialtronesco che vede un’Italia tutta uguale e romana da Nord a Sud, sia dal secessionismo pagliaccesco che si immagina un Nord celto-germanico (e basta), un Centro romano (e basta) e un Sud caricaturale tutto Levante o anche peggio. Mi viene, peraltro, da ridere perché spesso vengo accusato dai romanisti di essere nazi-leghista e dai padanisti di essere invece fascio-itaGliano, segno che le posizioni equilibrate e le sfumature (razionali) risultano invise a chi è accecato da ignoranza fanatica e rodomonteria wanna-be, per usare un efficace anglicismo.

C’è però da dire che l’acme della comicità involontaria si raggiunge con gli ultrà da sacrestia che amano masturbarsi pensando ad un’Italia da sempre cristiano-cattolica, così innamorati del proprio vaniloquio confessionalista da non rendersi nemmeno conto di come la vera Tradizione italo-romana nasca dalle radici pagane ed indoeuropee e, sebbene intersecatasi successivamente con la cristianizzazione petrina, poco abbia genuinamente a che fare con tutto il bagaglio di eresie mediorientali scaturite dal giudaismo. Intendiamoci, è sciocco ignorare una connotazione (anche culturale, non solo religiosa) dell’Italia in direzione cristiana e cattolica, con cui dobbiamo confrontarci ogni giorno della nostra vita, ma santi numi, noi siamo quel che siamo innanzitutto per l’eredità greco-romana e per la latinità, nonché per le nostre coloriture etno-regionali, sebbene in superficie vi sia una pennellata abramitica che sta confondendo le idee agli Italiani e agli Europei da un po’ troppo tempo.

Tornando al nostro caso specifico, che è quello relativo ai Longobardi, si deve rimarcare la tendenziosità di chi ha voluto raffigurarli come dei barbari irrecuperabili, “nefandissimi”, bellicosi e sanguinari, bestiali e incivili, oppressori di Roma, dei Romani e della romanità, e questo per ragioni di sporca propaganda politica; il giudizio sprezzante del Manzoni nasce, ovviamente, dalle testimonianze scritte alto-medievali di parte pontificia e franca, ma soprattutto pontificia, dovute a ragioni politiche e ideologiche volte ad affermare il dominio temporale della Chiesa e della sua ingordigia territoriale (il tutto, basato su notissime menzogne smascherate dagli umanisti) sull’Italia centrale e bizantina, una Chiesa rapace e dispotica che non poteva tollerare le mire espansionistiche dei Longobardi tese ad unificare politicamente l’Italia sotto la corona pavese. I papi ci tirano in casa i nostri nemici esterni dai tempi di Pipino, raggiungendo così una satanica collusione tra gli avversari interni e quelli forestieri del nostro Paese. Quelli interni, nella fattispecie, sarebbero appunto i preti di Roma capeggiati dal gran rabbino crociato asserragliato nei palazzi vaticani.

Con Liutprando, Astolfo e Desiderio la riunificazione politica dell’Italia era letteralmente ad un passo, e non fosse stato per il Vaticano saremmo (politicamente) nazione da quasi 1.500 anni (ma da più di 1.500 se si considerassero Odoacre e Teodorico), ed immaginatevi quanto marciume si sarebbe potuto evitare sventando il criminale piano pontificio consistente nella seminagione di zizzania per dilaniare il Paese, frammentandolo in decine e decine di inutili entità amministrative, indipendenti (per modo di dire, indipendenti, visto che ricadevano sotto il dominio degli stranieri). Quelli invece intrigarono con Carlo Magno, il Regno longobardo venne liquidato e l’Italia spezzata in diversi tronconi con un Nord dominato dai Franchi, un Centro asservito ai preti, un Sud longobardo e poi svevo-normanno ma alquanto ellenizzato e sotto la costante minaccia islamica di Mori e Saraceni.

Proprio per queste ragioni il “nazionalista” Manzoni, coi suoi epigoni, non solo è esecrabile ma anche ridicolo, perché demonizzando i Longobardi per glorificare i papi e i carolingi finisce per esaltare i veri nemici dell’unità d’Italia, coloro che per secoli vollero uno spezzatino peninsulare sottomesso, ininfluente, vessato dalle scorribande di qualunque popolo confinante, ridotto ad uno scenario da cartolina buono solo per i triti cliché anti-italiani: sole, mare, cuore, amore, arte, cibo e via di banalità consimili. Nei sogni bagnati dei neoguelfi un desolante panorama siffatto stuzzicava barbarici sogni teocratici, con un’italietta angariata dal romano pontefice e inaridita dalle fole mediorientali di un dio tirannico e straniero, un dio che vuole pecore e non guerrieri padroni del proprio destino.

Oltretutto le ideologie ottocentesche dello stato nazionale (contraddistinte da poco piacevoli venature massoniche) hanno contribuito a tutta la distorsione storiografica sul ruolo svolto dai Longobardi in Italia, non solo politicamente ma anche etnicamente, culturalmente, linguisticamente, da un punto di vista antropico tanto che le esagerazioni partigiane in materia sono giunte sino ad oggi, anche se fortunatamente la moderna storiografia cerca di raddrizzare decisamente il tiro a tutte le leggende nere che circondano i Longobardi. Leggende nere che, del resto, riguardano anche il Medioevo raffigurato dai soliti noti come periodo di buio, barbarie, decadenza, inciviltà, malvagità e irrazionalità da contrapporre all’Illuminismo, ma che invece andrebbe riletto con onestà ed intelligenza scoprendo così la vera essenza di quel periodo e la sua reale configurazione.

Con i Longobardi inizia il Medioevo italiano ma non fu una rottura totale col passato romano, tanto più che la fusione tra elementi germanici e romani risultò fondamentale per la fortificazione e l’ascesa del regno di Pavia, una monarchia latinizzata e immersa nella realtà italica dell’epoca che raggiunse il proprio apogeo quando l’assimilazione dell’elemento allogeno germanico a quello indigeno romanico fu compiuta. La sinergia tra forza politico-militare germanica e quella giuridico-culturale romana fu fondamentale per la gloria dei Longobardi e della loro corona e rivelò il potenziale straordinario da cui ripartire dopo il lento dissolversi delle istituzioni dell’Impero romano d’Occidente.

Paolo Sizzi

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Il Biscione Visconteo

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Uno dei simboli più rappresentativi, se non il più rappresentativo, della Lombardia è certamente il Biscione visconteo, le cui radici affondano nella storia di Milano e della stessa Lombardia.

Il Biscione rappresenta un simbolo ctonio, mitologico, pregno di significati che si potrebbero accostare a quelli del più noto basilisco, una bestia mitica, molto ricorrente nei racconti medievali, cui veniva attribuito il potere di uccidere col solo sguardo o col proprio fiato pestifero.

A questo proposito, ecco spuntare il drago Tarantasio, un mostro che secondo la leggenda infestava le acque del prosciugato lago Gerundo, ubicato in quella che oggi è la Gera d’Adda, al confine tra il Milanese e il Bergamasco; questa figura si ricollega a quella di altre fiere tipiche del mondo celtico (draghi appunto) cui veniva attribuito il mortale potere di uccidere col miasmatico fiato, proprio come il grecizzante basilisco. Appare utile ricordare che il drago, mitico animale acquatico, ben poteva adattarsi ad un clima paludoso, come quello padano degli albori, contraddistinto da primitive civiltà celto-liguri palafitticole.

Si dice che questo drago Tarantasio terrorizzasse la zona uccidendo e divorando fanciulli (ed ecco una prima interpretazione dell’uomo ingollato dal Biscione) e che per questo venne ammazzato dal capostipite dei Visconti che lo immortalò poi nel proprio stemma, in ricordo dell’impresa. Questa è chiaramente una leggenda, che peraltro coincide col prosciugamento del lago lombardo.

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Il Drago Tarantasio

Decisamente più veritiera è invece l’ipotesi che vuole il Biscione vipera adorata dai Longobardi. Essi erano molto superstiziosi e portavano al collo amuleti a forma di vipera, azzurra, inquadrata come proprio animale totemico (forse riprendendo anche il bronzeo serpente issato da Mosè nel deserto per guarire gli Ebrei morsi dai rettili desertici inviati da Dio come castigo).

Pare poi che questo simbolo sia passato al comune di Milano e da lì acquisito dai Visconti che lo fecero il proprio simbolo.

Nell’accezione longobarda la vipera, o bissa alla milanese, avrebbe un significato positivo, ctonio, da cui la vita fiorirebbe invece di essere annientata. E questo è un simbolo di chiara ispirazione matriarcale che vede nella Madre Terra, la Dea Madre, l’origine della vita, vita che da essa nasce e ad essa ritorna.

Un’altra ipotesi, suggestiva più che reale, vuole che il Biscione sia invece un simbolo orientale strappato dal capostipite dei Visconti, Ottone, durante le Crociate, ad un “infedele” ucciso in combattimento, “infedele” finito poi, nello stemma, tra le fauci del serpente a mo’ di contrappasso per simboleggiare la vittoria viscontea sui musulmani.

In effetti in alcune rappresentazioni, e descrizioni araldiche, compare una figura umana descritta come “moro” e non più come fanciullo roseo, e a questo punto potrebbe anche esservi una sovrapposizione dell’impresa milanese nella cosiddetta Terrasanta, citata anche da Giuseppe Verdi nel suo brano “Oh Signore dal tetto natio” dell’opera ” I Lombardi della prima crociata”.

Proprio qui appare interessante la similitudine che c’è tra la leggenda del Drago Tarantasio e la leggenda di San Giorgio. Anche secondo questa leggenda, ambientata però in Libano, il cavaliere San Giorgio riuscì a sconfiggere il terribile drago che infestava le acque di un lago, salvando così dal pericolo gli abitanti locali. Il quadro si fa ancora più suggestivo se pensiamo al fatto che sia il Biscione Visconteo che la Croce di San Giorgio siano dei simboli strettamente legati alle Lombardie, ai Visconti e all’Insubria in primis.

La figura guerriera di San Giorgio, al pari di San Michele, venerato anche esso dai nostri Avi Longobardi (per i quali la sua figura si concilliava bene con quella di Odino), rappresenta uno degli esempi di armonica fusione tra elementi pagani e cristiani e naturalmente la stessa cosa si può dire sul Biscione Visconteo stesso; da una parte simbolo longobardo di origine pagana e dall’altra simbolo dei crociati lombardi che sconfiggono il semita in battaglia.

Rimanendo fedeli all’ipotesi longobarda, l’uomo tra le sue fauci potrebbe essere tranquillamente un simbolo ctonio nascente, sebbene l’ipotesi del Moro fagocitato, a rappresentare la vittoria personale viscontea in Palestina, abbia il suo fascino.

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Affresco del Tarantasio nella chiesa di San Giorgio in Lemine ad Almenno San Salvatore (BG)

Un’ultima interessante ipotesi, teorizzata da alcuni ambienti insubricisti, vede nel Biscione visconteo un richiamo a quegli antichi dragoni gonfi d’aria, e issati in cima ad una picca, che venivano utilizzati come vessillo da alcuni popoli germanici ma anche iranici, soprattutto a ridosso del limes; potrebbe anche darsi che in Pannonia, ove erano siti prima di dilagare nella Pianura Padana, i Longobardi abbiano acquisito questo simbolo portandolo in eredità a Milano, dove poi divenne emblema comunale e visconteo.

Il Biscione è un animale totemico, longobardo, passato poi al comune di Milano e ai Visconti, che ne fecero il proprio stemma (sempre utilizzato però da Milano, dagli Sforza al Lombardo-Veneto, finendo anche per rappresentare ambiti commerciali, pubblicitari e sportivi milanesi).

La bissa milanesa conserva a distanza di secoli il suo diuturno fascino e la vediamo come simbolo ideale a rappresentare la Lombardia etnica (contrapposta al Triveneto, nonchè quella che fu Austria longobarda, il cui simbolo più importante a livello storico è il Leone di San Marco), assieme all’Aquila imperiale di retaggio latino-germanico. Del resto, il vessillo ducale dei Visconti è caratterizzato proprio da questi due simboli inquartati in una bandiera bianco-dorata, e recuperarlo è sicuramente un degno tributo nei confronti di coloro che hanno gettato le basi della moderna Lombardia e che hanno fatto di Milano il suo capoluogo nonché la città precipua del Nord Italia.

Un’insegna migliore, senza dubbio, dell’attuale bandiera verde con rosa camuna bianca, che banalizza un nobilissimo simbolo camuno meglio rappresentato, secondo noi, dallo svastika che  riprende una reale incisione rupestre (Carpene) di chiaro retaggio solare indoeuropeo.

Pol Sizz

Lissander Cavall

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La situazione geolinguistica

Geolinguistica lombarda

Situazione linguistica della Lombardia etnica.

Dopo aver tracciato un semplice quadro introduttivo sulla questione linguistica lombarda, procediamo ora all’approfondimento delineando un’essenziale analisi delle lingue attualmente parlate in Lombardia.

Premettiamo che, dal punto di vista accademico, le ricerche effettuate sulle suddette lingue risentono indubbiamente dei numerosi filtri di natura politica che il sistema italiano sviluppa per cercare di sotterrare l’identità lombarda e delle altre popolazioni cisalpine.

Ma lasciando da parte le ragionevoli critiche che si potrebbero muovere a certi linguisti italiani, entriamo nella più interessante trattazione tecnica delineando una visione d’insieme della situazione geolinguistica della Lombardia.

Naturalmente, la principale famiglia linguistica autoctona parlata in Lombardia è il lombardo, che dopotutto sarebbe il gallo-italico “puro” ovvero il galloromanzo cisalpino; sistema linguistico che appartiene alla più grande famiglia delle lingue romanze, ossia lingue sviluppatesi dal latino volgare che era parlato in molte parti dell’immenso impero romano, declinato sulla base dei sostrati prelatini.

Per la precisione, il lombardo fa parte della sottofamiglia delle lingue romanze occidentali, la quale comprende a sua volta il gruppo iberoromanzo e il gruppo galloromanzo. Quest’ultimo è infine suddiviso in sottogruppo settentrionale, sottogruppo occitano e sottogruppo cisalpino (sottogruppo cui il lombardo appartiene, assieme a retoromanzo e veneto).

Giusto per chiarire le idee a chi è poco ferrato in linguistica, ricordiamo a questo punto che l’italiano standard è una variante del toscano, lingua appartenente alla sottofamiglia romanza orientale, la quale comprende il gruppo italo-romanzo e il gruppo balcano-romanzo.

Tale precisazione è da considerarsi doverosa perché moltissimi Lombardi sono tuttora convinti (ovviamente per via della disinformazione portata avanti dallo stato-apparato italiano) che le proprie lingue siano dialetti dell’italiano.

Ma come sarebbe possibile ciò se i due idiomi in realtà non fanno neppure parte della medesima sottofamiglia?

In verità, è sufficiente possedere un minimo senso critico per intuire che pure la linguistica sia stata strumentalizzata per cercare di legittimare uno stato senza Nazione come la Repubblica Italiana nata 70 anni fa.

Chiusa la parentesi sui rapporti tra il toscano e il lombardo, cerchiamo ora di definire lo sviluppo storico e, successivamente, l’estensione della lingua lombarda (lingua intesa come sistema linguistico gallo-italico, si capisce, non essendoci una precisa koiné pan-lombarda).

Durante i secoli della dominazione romana, le popolazioni celtiche che occupavano il bacino imbrifero padano appresero lentamente il latino volgare che veniva quotidianamente parlato dai commercianti e dai legionari.

In seguito, l’invasione longobarda (in misura minore quella gota) arricchì lo scadente latino che parlavano i nostri avi con nuove forme lessicali, sintattiche, grammaticali e fonetiche che, nel giro di qualche secolo, diedero origine alla primitiva lingua lombarda.

A livello scientifico, si usa perciò dire che il lombardo è una lingua romanza occidentale (cisalpina) con sostrato celtico e superstrato longobardo.

Non ci vuole molto a intuire che la definizione linguistica di lombardo è strettamente collegata alla definizione etnica di Lombardi: popolazioni cisalpine di origine celtica su cui si è innestata una certa componente gota ma soprattutto longobarda.

Queste due definizioni fondamentali ci consentono di delineare precisamente i confini linguistici della Lombardia (etnica): piemontese, insubrico, orobico, emiliano sono infatti gli unici idiomi romanzi con sostrato celtico e superstrato longobardo e, di conseguenza, gli idiomi da considerarsi lombardi.

Possiamo perciò rispondere ad alcune delle ingenue domande che spesso riceviamo: perché la Liguria non è Lombardia? Perché la Romagna non è Lombardia? Perché Bologna e Ferrara non sono Lombardia? Perché la Lunigiana non è Lombardia?

Oltre al fatto che il sostrato celtico è presente solo nella lingua ligure e non nell’etnia ligure, bisogna ricordarsi che la Liguria è stata sì conquistata (tardivamente) dai Longobardi, ma il clima avverso alla popolazione germanica fece in modo che non vi fossero insediamenti dei medesimi in tale territorio.

Per quanto riguarda invece la Romagna, sanno anche i polli che deve il suo stesso nome al non essere stata mai conquistata e colonizzata dai Longobardi.

A differenza della vicina Romagna, il Bolognese e il Ferrarese furono sì conquistati da Liutprando nel 727, ma rimasero sotto il dominio longobardo per talmente poco tempo (nemmeno cinquant’anni) da non consentire l’innesto di un superstrato longobardo. E questo anche se bolognese e ferrarese sono certo più gallo-italici del romagnolo, considerando che il ferrarese è prossimo al mantovano e il bolognese è a metà strada tra lombardo e romagnolo.

La Lunigiana ha invece ricevuto un considerevole apporto longobardo sia a livello etnico che linguistico, ma non ha il sostrato etnico celtico (problema speculare alla Romagna). Per tale ragione la vallata apuana non può essere parte della Lombardia etnica.

Per questi motivi dunque considerare i vernacoli romagnoli e liguri come lombardi non sarebbe esatto, però considerando che essi comunque facciano parte appieno del sottogruppo gallo-italico, non sarebbe un errore grossolano considerarli come delle propaggini del sistema linguistico lombardo, anche perchè teniamo comunque a mente che il ligure risente di parecchio degli influssi piemontesi e occitani (un esempio sono le vocali turbate), mentre il romagnolo presenta diverse affinità con i dialetti emilani centro-orientali, così come il ferrarese presenta somiglianze con il mantovano. In poche parole il termine “lingue lombarde” può benissimo essere inteso per “lingue gallo-italiche.

Chi ha visionato attentamente le nostre cartine avrà certamente intuito che la Lombardia etnica che proponiamo non coincide esattamente con la Lombardia linguistica.

In effetti, durante lo studio effettuato in questi anni, si è ritenuto opportuno inglobare nella Lombardia alcuni territori popolati da minoranze linguistiche che per questioni storiche, geografiche e culturali starebbero meglio con noi Lombardi.

Per la precisione, le minoranze linguistiche che, previa loro approvazione, dovrebbero appartenere a un ipotetico organismo politico lombardo sono le seguenti:

– Le sette vallate provenzali delle Alpi occidentali: sebbene non siano state occupate dai Longobardi e siano linguisticamente provenzali, le valli occitane possono per ragioni storiche e geografiche essere parti della Lombardia.

– Le vallate franco-provenzali delle Alpi occidentali: sebbene non siano state occupate dai Longobardi e siano linguisticamente franco-provenzali, le valli arpitane possono per ragioni storiche e geografiche essere parti della Lombardia.

– La fascia ligure al di sopra dello spartiacque appenninico: nonostante parlino dialetti di transizione tra lombardo e ligure, la fascia ligure può per ragioni storiche, geografiche e culturali essere parte della Lombardia.

– Le comunità walser delle Alpi Lepontine: sebbene siano etnicamente, linguisticamente e culturalmente differenti, le comunità walser della Valsesia e dell’Ossola possono per ragioni geografiche essere parte della Lombardia.

Fermo restando che tutte le quattro minoranze etno-linguistiche elencate godrebbero delle opportune forme di tutela necessarie a una giusta autodeterminazione, dovrebbe risultare ovvio come l’appartenenza all’ipotetico organismo politico lombardo rappresenti anche una questione di “comodità” delle minoranze stesse.

Non ci vuole infatti un enorme sforzo logico per intuire che per un abitante di Lanzo è più comodo e meno dispendioso stare sotto la giurisdizione di Torino che sotto quella di Chambéry.

Discorso che vale anche per le altre tre minoranze linguistiche.

Adalbert Ronchee

Pol Sizz

Lissander Cavall

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